Sette minuti e cinquanta secondi: Tanto ci ha impiegato il giudice Alfredo Montalto per dire che non solo la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma che ad averla fatta sono stati i boss mafiosi, tre alti ufficiali dei carabinieri e il fondatore di Forza Italia.
Mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi.
Che alla fine hanno ottenuto un riconoscimento grazie a Marcello Dell’Utri, uomo cerniera di Cosa nostra quando s’insedia il primo governo di Silvio Berlusconi.
È una sentenza che riscrive la storia della fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda quella emessa dalla Corte di Assise di Palermo.
Condannati a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella.
Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, che invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni.
Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.
Sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda.
Assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro.
Il figlio di don Vito, uno dei testimoni fondamentali del processo, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile.
Una sentenza, sicuramente, storica che vede per la prima volta una conferma sul nesso trattativa stato- mafia. Si spera che ora, si possa andare avanti.
Anna Rahinò