Stateless: un dramma universale, che si concentra su un caso particolare, quello australiano.
Stateless, la serie Netflix uscita a luglio, racconta le vicende di quattro sconosciuti che si intersecano all’interno di un centro di detenzione per immigrati in Australia. Ci sono Sofie Werner, una hostess in crisi dopo essere fuggita da una setta; Ameer, un rifugiato afgano in cerca di asilo politico, maestro elementare che ha perso la moglie e una figlia uccise dal mare; Cam Sandford che inizia a lavorare nel centro per mantenere la famiglia; e Claire Kowitz, mandata a indagare sui metodi lavorativi del centro.
C’è una giovane siriana, capelli neri e occhi color del fuoco. C’è un vecchio, vestito di tutto punto seduto in cortile con la valigia ben fatta al suo fianco. In attesa di un Paese che lo voglia, da sette infiniti anni.
Una storia vera: quella di Cornelia Rau, cittadina tedesca, incarcerata illegalmente per dieci mesi fra il 2004 e il 2005; e quella di tutti gli altri rifugiati che cercano solo un po’ di pace.
Stateless racconta qualcosa che fa parte di noi
I personaggi sono diversi, fanno parte di mondi diversi. Eppure sono tutti lì e si incontrano per caso e da quel momento in poi non sono più sconosciuti.
Stateless riflette un mondo sempre più pericoloso e ostile. E racconta qualcosa che fa parte di noi, della storia umana: i barconi, i migranti, i viaggi della speranza per approdare in uno stato che ghettizza e sminuisce in nome di una supremazia nazionale.
Qui le storie si incrociano, fondendosi in un unico fiume di dolore, rassegnazione, desiderio di lotta e libertà. Uomini contro uomini, donne contro donne, esseri umani contro essere umani.
Un dramma universale, che si concentra su un caso particolare, quello australiano, poco noto.
Il caso australiano
L’Australia ha una legislazione tra le più rigide al mondo riguardo agli immigrati e ai richiedenti asilo. Eppure, se ne parla troppo poco.
Il cosiddetto “modello australiano”, inaugurato nel 2001 dall’allora primo ministro di centro-destra John Howard con la cosiddetta “Pacific Solution” ha prodotto un sistema di respingimento in mare e detenzione dei profughi su isole remote del Pacifico e in paesi terzi pagati dal governo: tutti coloro (senza distinzione tra adulti e bambini) ai quali non viene riconosciuto lo status di rifugiato politico sono respinti o deportati.
Da allora migliaia di richiedenti asilo sono stati rinchiusi a tempo indeterminato in centri lontani dalla terraferma, in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato. Ad oggi, si contano circa 1.450 persone tenute prigioniere, con una media di 500 giorni di “attesa”, anche se spesso restano incarcerati per anni.
I centri di detenzione sono vere e proprie prigioni
In questi anni l’Unhcr e Amnesty International hanno più volte denunciato le condizioni disumane in cui versano i migranti, bambini ed adulti, nei centri di detenzione. In entrambe le isole, Manus e Nauru, sono state registrate crisi di salute mentale fra gli individui che si trovano nei centri di detenzione da diversi anni, episodi di autolesionismo, depressione, sindrome da rassegnazione e suicidi.
I centri di detenzione sono vere e proprie prigioni, nelle quali donne, uomini e bambini – per lo più provenienti da Iran, Iraq, Sri Lanka e Afghanistan – vivono in spazi ristretti e in condizioni difficili. Sono l’uno accanto all’altro in un luogo in cui i migranti avrebbero dovuto trovare una possibilità di “rinascita” ma capiscono subito di essere vittime di un sistema che li tratta come numeri: ognuno ha un suo “codice”.
Non hanno diritti e sembrano intrappolati in un luogo-non luogo, in un tempo-non tempo; ingabbiati all’infinito tra una cella e un’altra, tra un pezzo di cielo e un altro, lontani dai propri cari e isolati dal mondo. Apolidi, non certo per scelta. E a nessuno sembra realmente interessare.
Dietro quelle recinzioni si spegne ogni umanità.
No Way
Nel dicembre 2013 entrava in vigore l’operazione militare “Sovereign Borders”, progettata al fine di impedire l’ingresso in Australia dei migranti irregolari e che introduceva un nuovo processo di valutazione delle richieste di asilo via mare, attraverso un’intervista telefonica. L’operazione è stata oggetto di una campagna mediatica denominata “No Way”, con protagonista il generale Agnus Campbell intento a spiegare gli effetti del provvedimento:
Se viaggi in barca senza visto l’Australia non diverrà la tua casa. Le regole si applicano a tutti, famiglie, bambini, minori non accompagnati, persone istruite e qualificate […]. Il messaggio è semplice: se vieni in Australia illegalmente in barca, non diventerai mai un cittadino australiano.
Nel dicembre 2014, poi, gran parte dei riferimenti alla Convenzione di Ginevra del 1951, relativa allo status dei rifugiati, sono stati cancellati dalla legge sull’immigrazione australiana. La norma, rivista e corretta, afferma che per l’Australia l’obbligo internazionale di non respingimento è “irrilevante” rispetto a un “non-cittadino illegittimo”.
Dall’inizio delle operazioni, hanno intercettato svariate navi e le hanno riaccompagnate al punto di partenza, oppure abbandonate alla deriva in acque indonesiane. Tuttavia, dal momento che le misure preventive della marina australiana per bloccare i profughi sono riservate, non si conosce il numero esatto di barche respinte.
Così, trattano queste persone come criminali, come se non avessero alcun diritto legale e invece per legge possono chiedere il diritto di asilo. Una burocrazia inesorabile e brutale, un gioco perverso che toglie umanità laddove seguito alla lettera e ne conferisce invece disobbedendovi, che lascia lo spettatore con una orribile sensazione di impotenza.
Stateless: la tristezza attanaglia anche “i ricchi bianchi”
Un filo spinato divide l’umanità tra chi ha tutto e chi non ha niente. Ma affiora anche la tristezza che attanaglia “i ricchi bianchi”, noi che apparentemente abbiamo tutto, ma non abbiamo niente: vittime di questo dannato capitalismo. La vita quotidiana somiglia sempre di più a una guerra di tutti contro tutti: competenza è sinonimo di competizione, e un processo complesso come la costruzione sociale della realtà è minato alla base dal presupposto che l’unica realtà che conta è quella individuale. La società non esiste: esistono solo individui.
Ma all’improvviso ci siamo accorti che lo stile di vita occidentale del ventesimo secolo, improntato su efficienza, espansione e crescita, non è più attuabile.
The lifestyle you ordered is currently out of stock,
recita un murale di Banksy nel centro di Londra dal 2011.
Stateless: un dolore diffuso
Ciascuno a modo suo, ogni personaggio incarna diverse sfaccettature di quella complicata macchina di sentimenti e conflitti interni che è l’essere umano.
Non potrebbe essere più reale: carcerieri o prigionieri, burocrati o uomini d’azione, sono tutti oppressi, vittime di qualcosa di più grande.
C’è un dolore diffuso, in ognuno di quegli sguardi, di persone che hanno sfidato la morte per cercare di vivere. Chi vorrebbe solo poter scappare, e chi vorrebbe solo poter restare. Ma il dolore emerge anche in chi “sta dall’altra parte” della recinzione, persone risucchiate da un’onda di rabbia, violenza e sopraffazione.
Un dolore umano tangibile. Un dolore rabbioso per il senso di impotenza disarmante che resta alla fine, quando dopo aver dedicato un pensiero agli oltre 70 milioni di sfollati che in tutto il mondo sono in cerca di un rifugio dai conflitti e dalla persecuzione, ci addormentiamo consapevoli di un’ennesima sconfitta.
Non abbiamo molto tempo… Esistono sempre alternative sostenibili.
Giulia Chiapperini