Dilaga la protesta nelle città italiane: Palermo, Napoli, Roma, Genova, Bologna, Padova, Torino e da qualche giorno anche Milano. Il movimento dei giovani palestinesi italiani ha lanciato per oggi 15 maggio la giornata dell’Intifada delle università, un appello a tutti gli atenei e alle città di mobilitarsi per arrestare il genocidio attraverso azioni pacifiche come la rottura degli accordi universitari con atenei e aziende belliche israeliane.
Una protesta globale
In tutto il mondo dilagano le proteste delle Università: in Spagna i movimenti studenteschi hanno ottenuto la rescissione dei contratti delle Università con Israele, mentre gli Stati Uniti hanno represso le proteste con violenze e arresti e ancora oggi negano il genocidio in atto. Le immagini della Sorbona in cui si vedono i poliziotti estrarre con forza gli studenti dalle loro tende sembrano un macabro richiamo alle immagini dei soprusi dei militari israeliani sui civili palestinesi, come se la violenza avesse una sola faccia.
La Nakba del 15 maggio del 1948
Nakba significa catastrofe. Ogni 15 maggio si celebra il giorno del 1948 in cui venne dichiarato lo Stato di Israele in territori arabi e avvenne l’esodo forzato della popolazione palestinese. Sono passati 76 anni da questi diritti negati e l’intifada delle università vuole celebrare questo triste giorno chiedendo una svolta decisiva al mondo intero.
Le proteste all’Università Statale di Milano
Dal 10 maggio gli studenti della Statale di Milano si sono uniti all’Intifada delle università e hanno piantato 120 tende. Hanno lanciato una petizione per interrompere gli accordi tra Statale e Reichman University, molto vicina alle istituzioni militari israeliane e al Mossad, i servizi segreti israeliani. Non chiedono solo quello. Non riescono più a comprendere come la Statale di Milano, Università che forgia cittadini del mondo e si vanta di sviluppare il pensiero critico nei suoi studenti, non prenda una posizione netta sul genocidio in atto. Vogliono che le cose siano chiamate con il loro nome.
Federico mi racconta sotto la pioggia che sono tanti i collettivi e le associazioni che si sono uniti all’Intifada delle Università e hanno deciso di unirsi sotto un unico nome: quello dei giovani palestinesi italiani. I giovani palestinesi italiani sono un movimento nazionale che organizza le proteste studentesche per fermare l’invio di armi da parte dell’Italia verso Israele e il genocidio in corso.
L’importanza di schierarsi chiaramente
Da poco è succeduta come Rettrice dell’Università Statale di Milano Marina Brambilla, e i movimenti studenteschi hanno ottenuto di intervenire in Senato Accademico proprio ieri. Ma, appena terminato l’intervento della conferenza tenuta online per questione di sicurezza, l’Università ha interrotto la chiamata senza ringraziarli per l’intervento o salutarli. Si dicono disponibili al dialogo, ma il dialogo è fatto di risposte elusive e prese di posizione molto blande, commenta Federico:
«Manca la volontà politica di prendere posizione chiaramente contro un genocidio. In Spagna è stato fatto, sarebbe dignitoso che la classe accademica italiana avesse il coraggio di prendere posizione pubblicamente riguardo a questa tragedia».
Chiedo a Federico cosa pensa della commissione costituita qualche giorno fa a seguito delle dichiarazioni di Piantedosi e la preoccupazione che ci siano degli infiltrati nei movimenti studenteschi. Mi indica due persone, dice che sono della Digos e che quindi i giovani palestinesi italiani sono tutti sotto controllo, non hanno nulla da nascondere. Ogni giorno organizzano dibattiti culturali, laboratori, proiezioni di film, approfondimenti con legali, associazioni, testimoni e vittime di guerra per elaborare soluzioni e strategie per cambiare il corso della storia. Mi racconta che una sola professoressa ha tenuto una lezione di filosofia politica, ma l’intifada delle università vorrebbe più sostegno da parte dei docenti. La rete sta diventando nazionale, le università sono in contatto:
«Ci sentiamo in un momento storico cruciale. Solidarietà è la parola chiave. Qui si sente quella solidarietà che tipicamente c’è nelle mobilitazioni per i diritti umani. Io mi sento di diffondere un messaggio di lotta. La coscienza collettiva ha un impatto sulla realtà: prendiamo tutti posizione in modo chiaro».
Martino, un dottorando in Legge, mi racconta che il problema è che molti la vedono come una guerra lontana, invece il mondo sta creando un precedente, possiamo essere noi i prossimi. Per ottenere la pace bisogna lottare. Durante il convegno del 10 maggio indetto dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università per parlare di educazione alla pace, si è collegato un giornalista da Gaza, Al Hassan Selmi e ha ringraziato gli studenti delle proteste pacifiche nelle università. Ha detto tra le macerie dei palazzi e il suono di ambulanze :
«Le vostre proteste non ci fanno sentire soli».
Federica Sozzi