Squid Game: il lato oscuro del miracolo economico in Corea del Sud

squid game

Il fenomeno globale di Squid Game, la serie TV sudcoreana debuttata su Netflix nel 2021 e recentemente tornata sulla piattaforma con la seconda stagione, ci offre uno spaccato realistico della Corea del Sud: un Paese diviso dalle disparità economiche e sociali, dove la stabilità della democrazia è fragile e l’ombra della “cugina” a Nord incombe pesantemente.

La trama della serie mescola distopia e lotta per la sopravvivenza. 465 persone in condizioni finanziarie disastrate, sommerse dai debiti e ai margini della società, vengono reclutate per strada da un uomo misterioso e invitate a partecipare a un gioco: 6 sfide, caratterizzate da giochi infantili (come Un, due, tre, stella! o il tiro alla fune), il cui superamento porterà alla vincita di un ingente premio in denaro.

I partecipanti, rinchiusi in una sorta di campo di prigionia su un’isola, sono controllati ventiquattr’ore su ventiquattro tramite telecamere e sensori di movimento, sotto il mirino di cecchini specializzati: chi perde, infatti, non andrà semplicemente incontro all’eliminazione, ma a morte diretta. Man mano che i giocatori muoiono, il premio in denaro si accumula, alimentando la competizione interna fra i concorrenti e scatenando dinamiche di violenza. Il gioco è destinato all’intrattenimento di un gruppo di ricchi e potenti individui, che guardano le sfide e scommettono sui partecipanti.

Il boom economico degli anni Sessanta e l’affermarsi delle Chaebol

Dopo la fine della Guerra di Corea nel 1953, il Paese era uno dei più poveri e arretrati al mondo, caratterizzato da un’economia prevalentemente agricola e dipendente dagli aiuti finanziari e militari degli Stati Uniti. A cambiarne le storti è stata l’ascesa al potere del dittatore Park Chung-hee nel 1961, il quale, con un mirato piano di industrializzazione e incentivazione delle esportazioni, ha dato inizio al boom economico, che ha portato il Paese a essere battezzato una delle quattro «Tigri asiatiche». In pochi decenni l’economia sudcoreana è diventata una delle più potenti al mondo e, attualmente, è la ventinovesima per PIL pro capite, con un valore di 33.121,37 USD (2023) secondo la Banca Mondiale.

Il miracolo economico, tuttavia, è intriso di contraddizioni e ha lasciato indietro una parte consistente della popolazione, permettendo a poche élite di arricchirsi e danneggiando così lo sviluppo della democrazia. Motori della rapida industrializzazione del Paese nel periodo postbellico sono state le chaebol, conglomerati aziendali controllati da singole famiglie, che in breve tempo hanno acquisito il monopolio di tutti i settori chiave dell’economia sudcoreana. Il supporto dei governi, che negli anni hanno erogato prestiti e finanziamenti, è stato fondamentale per consentire la loro massima espansione, consolidando così un legame indissolubile fra questi colossi e il potere politico.

Ad oggi le chaebol, ad esempio Samsung, Hyundai, LG, controllano il 77% dell’economia del Paese, con il predominio esclusivo sui beni di consumo e di elettronica, sull’industria cantieristica, manifatturiera e dell’intrattenimento, e sui servizi assicurativi e finanziari.

La gestione di queste aziende viene trasmessa per linea ereditaria al figlio maggiore e tutti gli incarichi di rilievo vengono affidati a famigliari o amici fidati, impedendo a qualsiasi persona esterna di fare carriera all’interno dell’azienda e aspirare a posizioni di maggiore responsabilità e remunerazione. I dipendenti, d’altro canto, devono approcciarsi all’azienda come se fosse la loro famiglia, offrendole completa dedizione e fedeltà, secondo la tradizione confuciana, la quale pone enfasi sul rispetto delle gerarchie e la devozione nei confronti dei superiori.

Il termine utilizzato in Corea del Sud per descrivere l’atteggiamento richiesto ai lavoratori è Jeong, che indica l’amore incondizionato per il prossimo e il dedicarsi all’altro senza pretendere nulla in cambio. Il tasso di suicidi in Corea del Sud è il secondo più alto al mondo, dato che mostra come questo modello economico basato sulla completa dedizione al lavoro sia deleterio per la salute mentale delle persone.

Welfare occupazionale e coperture assicurative

Nonostante i numerosi problemi, lavorare per le chaebol risulta ad oggi uno dei lavori più ambiti, in quanto garantisce stipendi mediamente più alti rispetto a quelli delle piccole e medie imprese, che non reggono la competitività con i grandi conglomerati, finendo per rimanere schiacciate. Il salario, tuttavia, non rappresenta l’unica determinante per aspirare a un posto di lavoro a tempo indeterminato in una chaebol: accedere alle pensioni, alle cure sanitarie, ai sussidi è possibile solo previo pagamento di un contributo assicurativo, che, nel caso dei lavoratori dipendenti, è a carico del datore di lavoro.

Ne consegue che le piccole aziende, soprattutto se dislocate all’infuori delle città più ricche, facciano fatica a eguagliare gli standard di benessere e sussistenza dei grandi conglomerati, creando un forte divario economico tra i lavoratori.

L’affermarsi del welfare occupazionale è frutto degli accordi fra le chaebol e i governi, dittatoriali e democratici, che si sono susseguiti negli anni: questo modello ha permesso all’esecutivo di consolidare il consenso tra i cittadini, garantendo l’accesso ai servizi di base grazie al loro impiego, e alle imprese di sfruttare al massimo la forza lavoro dei propri dipendenti, legandoli a sé con la consapevolezza che, se si fossero ribellati, sarebbero stati licenziati, perdendo così sia lo stipendio sia i benefici associati.

Le lotte sindacali sono state represse sin dal loro esordio, tramite la collaborazione fra gli amministratori delegati delle grandi aziende e gli apparati statali: tra il 2015 e il 2016, sotto il governo di Park Geun-hye, sono state arrestate decine di dirigenti sindacali e perquisite diverse sedi dei sindacati con la giustificazione di salvaguardare la sicurezza della nazione e le attività economiche. Coloro che sono riusciti a scampare alle denunce e alla detenzione vengono costantemente monitorati dai propri datori di lavoro, con la prospettiva del licenziamento qualora esibissero nuovamente atteggiamenti di ostilità verso la direzione dell’impresa.

Le conseguenze sociali delle disuguaglianze economiche

Il welfare aziendale rende la disoccupazione ancor più deleteria che nei paesi con welfare universale (ad esempio l’Italia), in quanto perdere il lavoro significa rinunciare anche alle coperture assicurative, a meno che non si riesca a pagarle in maniera autonoma. Questo porta molte persone a indebitarsi con le banche e gli strozzini e a rifugiarsi nel gioco d’azzardo o nella delinquenza per riuscire a sopravvivere e a sostentare se stessi e la propria famiglia.

L’innalzamento dei costi degli affitti nelle grandi città ha contribuito a creare un divario abitativo notevole, separando con una netta linea di demarcazione coloro che hanno salari rispettabili e accesso completo a tutti i servizi essenziali dai baeksu, i disoccupati senza niente in mano, che invece vivono ai margini e sono privi di stabilità economica. A Seul e in altre grandi metropoli sono ancora presenti i dal ìdongnae, quartieri fatiscenti costituiti da abitazioni abusive e pericolose, dove le infrastrutture sono inadeguate e gli abitanti sono visti con stigma dal resto dei cittadini.

I principali residenti di queste baraccopoli sono gli anziani. A causa del pessimo sistema di previdenza sociale, che sia a livello pubblico sia a livello privato non riesce a garantire pensioni che permettano alle persone di vivere in modo dignitoso, oltre il 50% degli ultrasettantenni in Corea del Sud vive in condizione di povertà relativa. Chi è abbastanza in salute da poterselo permettere continua a lavorare anche superata l’età minima pensionabile di 62 anni.

Il problema è destinato ad aggravarsi a causa del calo demografico nel Paese: secondo i dati delle Nazioni Unite la Corea del sud è il penultimo stato al mondo per tasso di natalità, che si attesta sulle 0,78 nascite per donna, e, se non verranno adottate eccezionali riforme del sistema pensionistico, il destino dei giovani coreani sarà uguale, se non peggiore, di quello dei loro nonni. Una vita segnata da lavoro e miseria li attende.

Un ulteriore dato significativo riguardante la condizione della popolazione anziana è che il tasso di donne ultrasessantacinquenni che vivono sotto la soglia di povertà relativa, 45,3%, è maggiore di quello degli uomini, 34%. Il divario di genere è un problema che i movimenti femministi del Paese denunciano da anni: il tasso di disoccupazione femminile si attesta intorno al 40% e secondo le indagini dell’OCDE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) gli uomini sono pagati in media il 34,6% in più rispetto alle loro colleghe.

Una sorte altrettanto difficile tocca ai lavoratori migranti: un rapporto di Amnesty International denuncia che sono sottoposti a trattamenti disumani, sfruttati e mal pagati, alle prese con lavori pesanti in cui maneggiano quotidianamente strumenti e materiali pericolosi senza ricevere una formazione specifica, il che li pone come soggetti maggiormente a rischio di incidenti e decessi sul lavoro. Peculiare è la situazione dei disertori nordcoreani, i quali, fuggendo dalla Corea del Nord in cerca di prospettive di vita migliori, si scontrano con un mercato del lavoro restio ad accoglierli e i severi controlli della polizia sudcoreana, che è per legge obbligata a sorvegliarli al fine di evitare qualsiasi influenza comunista nel Paese.

Questi dati mostrano come, in una realtà già segnata da gravi difficoltà come quella coreana, appartenere a un gruppo sociale discriminato amplifichi ulteriormente le conseguenze negative del capitalismo sfrenato che caratterizza l’economia del Paese.

Gli elementi analizzati finora emergono con forza nella serie tv Squid Game, la quale, mostrando una caricatura amplificata e distopica del mondo reale, mette in luce come il gioco, pur coinvolgendo solo persone provenienti da situazioni finanziarie disastrate, sia ancor più complicato per coloro che non sono nati e cresciuti in territorio sudcoreano, e quindi non ne conoscono le tradizioni, e coloro che non sono uomini, giovani e in buona salute, e quindi sono meno competitivi nella maggior parte delle prove.

Un’immagine della società non solo sudcoreana, ma capitalista tutta, in cui le persone più povere e marginalizzate pagano sempre il prezzo più alto dei profitti delle élite economiche e politiche. Queste ultime, con una maschera in faccia e un bicchiere di champagne in mano, proprio come nella serie, scommettono sulla vita dei disagiati, nella credenza e nella speranza che essi continueranno ad attaccarsi e a competere gli uni contro gli altri, senza mai alzare la testa contro il potere.

Beatrice D’Auria

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