Lo sport nell’antica Grecia era originariamente legato alla sfera religiosa, militare ed aristocratica. Solamente col tempo lo sport si è laicizzato ed è stato riconosciuto come un’attività professionale.
I Greci sono il popolo antico che ha coltivato più profondamente l’ideale atletico. La loro era una società agonistica, in cui vincere era fondamentale per affermare il proprio valore nella comunità.
Le origini dello sport nell’antica Grecia risalgono alla cultura dei riti funebri e ai culti eroici. L’atletismo greco si legò anche all’ideologia aristocratica. Infatti, l’uomo aristocratico e l’atleta condividevano una serie di valori: la superiorità fisica, il desiderio del primato e della gloria, il disprezzo per il perdente.
Nel libro XXIII dell’Iliade troviamo la prima vera descrizione di gare atletiche.
Si tratta dei giochi a conclusione del rito funebre per la morte di Patroclo. Questi agoni avevano un significato simbolico. Infatti, era come se si volesse risarcire la vitalità perduta con la morte tramite spettacoli di forza e destrezza sportiva. Le gare comprendevano diverse specialità: incontri di boxe, corse di carri trainati da cavalli, lotta, corsa, lancio del giavellotto e del peso, tiro con l’arco e combattimento in armi. Erano tutte specialità legate all’ambito della guerra e non esistevano ancora atleti professionisti. A sfidarsi erano gli stessi guerrieri che combattevano sul campo di Troia.
Anche i giochi gladiatori hanno la loro origine in sacrifici e combattimenti cruenti, organizzati dagli Etruschi e dai Romani, in onore di un morto.
Sono stati i Greci ad aver organizzato per primi delle gare sportive a cadenza periodica.
Erano eventi caratterizzati da grande solennità, e da complessi aspetti cerimoniali, tecnici ed amministrativi. Lo scopo era quello di onorare gli dei con l’organizzazione di agoni, nel contesto di un rigoroso cerimoniale. I giochi diventarono, quindi, un’occasione rituale e, allo stesso tempo, agonistica.
I giochi più importanti, le Olimpiadi, ebbero inizio nel 776 a.C. e si svolsero senza interruzione per undici secoli, fino al 394 a.C., anno in cui l’imperatore Teodosio le sospese. Erano gare in onore di Zeus, alle quali partecipavano tutti i Greci. In quella occasione, veniva bandita la ‘pace olimpica’, periodo in cui i Greci sospendevano le guerre in modo da potersi recare ad Olimpia senza pericoli.
Nel mondo greco c’erano, però, altre centinaia di giochi, alcuni di rilievo panellenico, altri di rilievo solamente locale. Ma ovunque, alla base delle celebrazioni, c’erano gli stessi elementi: da una parte i riti religiosi con le processioni, i sacrifici, le offerte votive, le preghiere; dall’altra, le feste agonistiche con i loro giochi. Sia che si trattasse di agoni musicali, di retorica, di arte drammatica, di danza o di pittura, sia che si disputassero gare atletiche, al centro di queste attività c’era sempre l’agòn, l’agonistica. Coristi, musici, danzatori, araldi e drammaturghi gareggiavano e ottenevano premi allo stesso modo degli atleti.
Ma in cosa consisteva l’agonismo dei Greci?
Se per Pierre de Couberin (1863-1937), l’inventore dei moderni giochi olimpici, il motto era “L’importante non è vincere, ma partecipare”, per i Greci il motto si limitava a “L’importante è vincere”. Solamente la vittoria, infatti, portava alla gloria e permetteva di avvicinare l’atleta agli dei. Non esisteva un podio: non arrivare primi significava perdere del tutto. Lo sport, nell’antica Grecia, era un ambito in cui non esisteva il “fair play”. Non c’erano, inoltre, giochi di squadra: la vittoria spettava solo al singolo individuo, che riceveva come riconoscimento una semplice corona di ulivo. Dopo l’incoronazione i vincitori dei quattro giochi maggiori, chiamati ‘della corona’ venivano portati in trionfo e, dopo una celebrazione religiosa, partecipavano ad un banchetto comune, insieme al pubblico e agli altri atleti.
Nel V secolo a.C. avvenne la svolta: l’atletismo diventò un’attività professionale.
Se fino a quel momento lo sport era stato un’attività per giovani aristocratici, legata all’ambito militare, a partire da questo momento i cittadini di ogni ceto potevano diventare atleti. Tuttavia, restava difficile praticare questa professione: il costo per il mantenimento dei cavalli e dei carri, l’impossibilità di lavorare durante i periodi di gara, la mancanza di un sistema di sponsorizzazione e altre complicazioni fecero sì che per un lungo tempo gli atleti continuassero ad essere i rappresentanti delle famiglie più nobili e ricche.
Col tempo, si è verificata una ‘laicizzazione’ della vittoria agonale.
La moltiplicazione delle gare sportive e dei premi offerti ai vincitori, la diminuzione del potere del ceto aristocratico e la crisi della sua ideologia, fecero perdere allo sport la sua stretta connessione con la sfera sacrale e religiosa.
Col passare del tempo, l’ambito sportivo si è sempre più staccato da quello religioso. Eppure, il fuoco della fiamma olimpica resta ancora oggi un simbolo del valore originario delle Olimpiadi. Il fuoco è stato reintrodotto durante i Giochi del 1928 e da allora in poi l’usanza è rimasta. La cerimonia di accensione si svolge nelle antiche rovine del tempio di Era, ad Olimpia. Undici sacerdotesse, ormai rappresentate da attrici, accendono il fuoco ponendo una torcia all’interno di uno specchio parabolico concavo, che concentra i raggi del Sole. La torcia viene quindi trasportata nella città che ospiterà i Giochi Olimpici con una staffetta (usanza introdotta nel 1936 dal regime nazionalsocialista di Hitler). La staffetta termina il giorno della cerimonia di apertura e la fiamma resta accesa per tutta la celebrazione dei Giochi Olimpici.
Questa cerimonia di accensione e mantenimento del fuoco è altamente evocativa e ci riporta all’ambito sacrale originario delle Olimpiadi, a quando gli atleti gareggiavano tra loro per avvicinarsi agli dei.
Giulia Tommasi