Sport e sessismo: niente più bikini per le giocatrici di beach handball

Vittoria per le giocatrici norvegesi di beach handball, non sul campo, ma nella vita: non saranno più costrette a giocare in bikini.

Nel regolamento beach handball presente sul sito della Federazione Italiana Giuoco Handball, alla sezione “Normativa sulle uniformi degli atleti”, si legge:

Le uniformi e gli accessori contribuiscono ad aiutare gli atleti a migliorare le proprie prestazioni e a rimanere coerenti con l’immagine accattivante dello sportivo e dello sport.

L’uniforme, quindi, oltre a determinare categorie o gruppi di persone, a identificare una squadra e uno sport tramite modelli e colori, ha una funzione ancora più profonda, legata al benessere di ogni singolo giocatore o giocatrice. La divisa non è un semplice pezzo di stoffa, ma rappresenta un simbolo che crea, per il solo fatto di essere indossato con le stesse modalità dagli altri componenti di una squadra o di un’ intera categoria, un senso di appartenenza, che unisce per mezzo di princìpi, ideali e regole condivise. Ogni giocatore deve, di conseguenza, sentirsi in armonia con ciò che indossa, sentirsi parte di una stessa realtà. Una realtà che, però, condivida egli stesso, e nei confronti della quale non provi alcun tipo di malessere.

Non è quello che è accaduto alle atlete di beach handball norvegesi che, proprio per non aver indossato lo slip del bikini durante una partita contro la Spagna, ai campionati europei di Varna (Bulgaria), rischiarono la squalifica, per poi ricevere, come punizione, una sanzione di 1.500 euro dalla Federazione Europea di pallamano (Ehf) per “abbigliamento improprio”. Secondo il regolamento, infatti, le donne devono indossare top e bikini, a differenza degli uomini per i quali si opta per canotta e pantaloncini:

La canotta degli uomini deve essere senza maniche, attillata e rispettare lo spazio per le stampature richieste. Il top delle donne (un costume da bagno modello 2 pezzi) deve essere molto aderente, con profonda apertura giromanica sul retro, sempre però rispettando lo spazio per le stampature richieste.

E ancora:

Gli atleti devono indossare pantaloncini come riportati nel disegno allegato di seguito. I pantaloncini, se non troppo cascanti (baggy), possono essere più lunghi ma devono rimanere 10 cm sopra la rotula del ginocchio. I bikini conformi al disegno allegato, attillati e sgambati. La larghezza laterale deve essere di un massimo di 10 cm.

Leggendo il regolamento, quindi, è evidente la disparità tra le due divise, l’una decisamente più coprente dell’altra. Ma si può parlare di sessismo? E, di contro, è eticamente giusto punire tanto pesantemente una squadra per un abbigliamento considerato improprio, ma che aiuta le giocatrici a sentirsi uguali e non discriminate? Le posizioni sono discordanti, e molti dei lettori potranno essere d’accordo con l’una o con l’altra. Ciò che è sicuramente vero, però, è che esiste una differenza nel trattamento di uomo e donna, ancora oggi, non solo all’interno dello sport, ma nella società tutta, nel mondo professionale, perfino tra le mura di casa.

Certo è che le donne hanno dovuto, storicamente, lottare per far valere i propri diritti, per “meritare” di sentirsi alla pari degli uomini, per “dimostrare” che il proprio valore non ha nulla di inferiore a quello di un uomo. Dal diritto di voto all’equiparazione salariale, dalla legge per l’aborto a quella sul divorzio, dalle proteste per lo svilimento della figura della donna alle marce per la legge sul femminicidio. La storia è piena di battaglie coraggiosamente affrontate dalle donne per ottenere diritti che dovrebbero essere naturalmente garantiti e che, ancora oggi, nel ventunesimo secolo, sono ben lontani dall’aver raggiunto quel tanto professato concetto di uguaglianza. Certo è che il corpo della donna viene ancora oggi considerato come un oggetto da poter controllare e possedere, come una proprietà sulla quale si possa decidere, strumento del piacere e del desiderio maschile.

Agli occhi dei meno attenti, dei meno sensibili, dei più portati alla critica frettolosa priva di una riflessione più approfondita, la libertà raggiunta oggi dalla nazionale norvegese di poter indossare pantaloncini e canotte, esattamente come è concesso agli uomini, apparirà sicuramente una battaglia di poco conto e una vittoria altrettanto discutibile. Semplicistico ridurre tutto a un pezzo di stoffa più corto o più lungo che fa poca differenza. La verità è che, anche nella scelta di inserire abbigliamenti con caratteristiche così diverse, all’interno dello sport che, per definizione, è uno di quei pochi ambiti della società che dovrebbe rendere tutti uguali, esiste un connotato implicitamente sessista e discriminante. Lo è perché non tiene conto di quel substrato culturale che, ancora oggi, consente ad alcune persone di maltrattare e non rispettare il corpo, la mente, e la figura stessa della donna, che ogni giorno combatte doppiamente, per l’affermazione di se stessa e del proprio ruolo nella società.

Non si può non tenere conto di ciò che storicamente le donne hanno dovuto subire, non si può costringerle a utilizzare abbigliamenti con i quali non si sentono valorizzate e rispettate, non si può rifiutarsi di venire loro incontro, non si può pensare di squalificarle per questo né di multarle perché chiedono la libertà di essere riconosciute come persone.

Ecco perché l’iniziativa promossa dalle giocatrici norvegesi aveva raccolto la solidarietà dell’organizzazione Collective Shout, che si occupa di uguaglianza di genere, con una campagna che portò alla raccolta di più di 60.000 firme. Inoltre, il ministro per la Cultura e lo Sport norvegese, Abid Raja, aveva definito le regole sulle divise femminili “del tutto ridicole”, portando alla richiesta delle dimissioni dei vertici della federazione europea e di quella internazionale.

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