Di tragedie come la guerra non si può tacere l’orrore; non sarebbe giusto. Eppure deve esistere, da qualche parte, una linea sottile tra ciò che è doveroso sapere e ciò che non è rispettoso mostrare. Un confine tra il diritto-dovere di cronaca e la spettacolarizzazione del dolore.
Il Testo unico dei doveri del giornalista sancisce che “è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui”. Pur mantenendosi nei limiti del corretto esercizio della professione, tuttavia, i giornalisti non sono esenti da dilemmi deontologici. Ammettendo che i fatti riportati soddisfino i requisiti di verità e attualità, quali informazioni o immagini sono davvero di interesse pubblico e di utilità sociale? Quali potrebbero invece essere tralasciate in segno di rispetto per le persone coinvolte? Credo sia proprio la risposta a queste domande a consentire ai giornalisti di tracciare quel confine tra diritto-dovere di cronaca e spettacolarizzazione del dolore.
Certo, non si tratta di un confine netto. Pur seguendo la propria coscienza, ogni giornalista probabilmente darà risposte leggermente differenti, così come diverse saranno le reazioni del pubblico. La soglia che determina ciò che riteniamo accettabile diffondere o ricevere è infatti estremamente soggettiva e legata alla sensibilità individuale. È tuttavia innegabile che i mezzi di comunicazione di massa, prima fra tutti la televisione, raramente si astengono dall’indugiare su fatti e immagini disturbanti. E se, di fronte alla guerra, questa tendenza può essere inquadrata come un tentativo di sensibilizzare le masse e dare testimonianza degli avvenimenti, lo stesso non si può dire per altre situazioni. Molto più spesso, infatti, non si tratta d’altro che di una bieca mossa strategica per far salire gli ascolti. Qualunque siano le motivazioni, però, il rispetto per le persone dovrebbe essere il principio guida.
Dalla tv del dolore alla tv dell’orrore
Complice l’effetto CSI da cui è affetta buona parte del pubblico televisivo, sempre più programmi d’intrattenimento si occupano quotidianamente di cronaca nera. Non paghi delle interviste strappalacrime alla celebrità di turno, da tv del dolore a tv dell’orrore il passo è breve. Dagli omicidi alle sparizioni, i casi già trattati dai telegiornali vengono dati in pasto a “opinionisti” che tra un gossip e l’altro esprimono pareri e giudizi sui fatti e sugli indagati. Sì, indagati, perché ciò che tiene incollati agli schermi gli spettatori è il fatto che le indagini siano ancora in corso e che nuove indiscrezioni vengano rilasciate in continuazione. Come se fosse il pubblico a dover risolvere il caso, o uno degli ospiti in studio.
Non c’è tragedia che venga risparmiata dallo sciacallaggio mediatico. Non ci sono famiglie a cui è concesso di soffrire con dignità e discrezione. Tra dettagli scabrosi e racconti raccapriccianti, la tv dell’orrore fatica ad asciugare le proprie lacrime di coccodrillo, ma non a liberarsi di ogni remora morale in nome di quello che la sua facciata perbenista si ostina ancora a chiamare diritto di cronaca.
Eppure non sono solo i programmi d’intrattenimento a seguire questa tendenza. Da tempo ormai anche i telegiornali cedono spesso alla spettacolarizzazione del dolore. Come se le notizie in sé non fossero sufficientemente drammatiche. Come se la scelta di mostrare certe immagini o condividere certe informazioni non avesse conseguenze più o meno dirette sulla vita delle persone coinvolte.
La funzione deterrente
A differenza dei programmi d’intrattenimento, pur nella loro spettacolarizzazione del dolore, i telegiornali sono indubbiamente animati da fini più nobili e condivisibili. Impossibile non notare la funzione deterrente dei servizi all’interno delle strutture sanitarie durante questi anni di pandemia. I telegiornali hanno riportato la realtà dei fatti con immagini e testimonianze di persone che, in vari modi, hanno sofferto a causa del covid. In questi casi, l’obiettivo auspicato non è solo l’informazione di routine, ma anche, idealmente, il ravvedimento dei negazionisti. Eppure, forse in modo un po’ disilluso, sono convinta che chi vuole negare l’evidenza continuerà a mettere in dubbio anche la veridicità di quanto visto in tv.
Io, invece, a volte mi trovo a sperare che si tratti di immagini e video finti. Che i medici e i pazienti inquadrati, spesso in stato d’incoscienza, siano attori e che si tratti solo di un set televisivo ricostruito fedelmente per l’occasione. Lo spero non perché voglia illudermi che il covid non esista, ma perché il solo pensiero che una troupe televisiva possa invadere un luogo di dolore e sofferenza come la terapia intensiva mi fa rabbrividire. Ammettiamo pure che qualche negazionista sia stato smosso da queste immagini e abbia cambiato idea. Benissimo! Almeno lo sfruttamento della sofferenza reale dei malati sarà servito a qualcosa… Ma davvero il fine giustifica sempre i mezzi? Anche quando il prezzo è la dignità dell’individuo?
Rendere testimonianza
Altro scopo dell’informazione giornalistica, soprattutto in contesti di guerra, è sicuramente il rendere testimonianza degli avvenimenti. Tuttavia, informare non significa necessariamente mettere a disposizione di chiunque qualsiasi raccapricciante dettaglio. Non si tratta di censura, solo di autoregolamentazione e, molto più banalmente, di buon senso, affinché le notizie vengano diffuse solo se effettivamente necessarie e utili e vengano condivise con il pubblico più adatto a riceverle.
Conoscere non significa necessariamente vedere ogni tragica immagine per poter credere a ciò che accade (anche perché con la tecnologia attuale non sarebbe certo un problema creare dei falsi). Compito del giornalista e del reporter è sicuramente quello di raccogliere prove e testimonianze, soprattutto in contesti in cui i carnefici negano le proprie responsabilità. Non è però il pubblico il tribunale che dovrà condannare i responsabili dei crimini commessi durante la guerra in Ucraina. Perché quindi mostrare al comune spettatore immagini, nemmeno sempre oscurate, di corpi senza vita riversi per le strade?
Anche il fine più nobile infatti non può e non deve perdere di vista la dignità dell’individuo. Parliamo di caduti in guerra, già umiliati nel corpo e nello spirito nel momento della morte e privati di una degna sepolutra. Donne, uomini e bambini depersonificati, ridotti a oggetti ripresi dalle telecamere ed esposti al potenziale sguardo di ribrezzo degli spettatori. Non è questa una mancanza di “tutela della personalità altrui”? O forse solo perché ormai sono morti questa legge non conta più? Non contano i familiari delle vittime, non conta la dignità umana.
Sensibilizzazione o desensibilizzazione?
Infine, l’obiettivo più comune è quello di sensibilizzare il pubblico. Trovo però assurdo che, anche davanti alle peggiori tragedie, si debba ricorrere alla spettacolarizzazione del dolore, come se i fatti in sé non fossero sufficienti. Come se avessimo sempre bisogno di “qualcosa in più” per commuoverci, per indignarci e per condannare gli orrori che ci vengono riferiti. Forse però, se davvero non riusciamo a provare empatia, non sono i fatti che non sono abbastanza drammatici, siamo noi a non essere sufficientemente umani.
Certo, è indubbio che alcune modalità di informazione scatenino nel pubblico una risposta emotiva maggiore. Chi può rimanere impassibile davanti a video montati ad hoc, ricchi di immagini strazianti, con musiche struggenti in sottofondo e accompagnati da una narrazione tanto poetica quanto retorica? Eppure non riesco a giustificare questa necessità di drammatizzare una realtà che è già terrificante di suo. Penso, al contrario, che la spasmodica tendenza al sensazionalismo possa solo sortire un effetto diametralmente opposto a quello desiderato, ovvero la desensibilizzazione. E come assuefatti a queste modalità, arriveremo a un punto di insensibilità totale per cui nessuna notizia potrà più smuoverci in quanto non sufficientemente sensazionale.
Deontologia e morale nella spettacolarizzazione del dolore
Ogni giornalista, ogni testata, ogni mezzo di comunicazione ha un proprio stile, una propria linea di pensiero, un proprio modo di narrare le vicende. Eppure dovrebbe esistere un limite netto oltre il quale non spingersi, anche a costo di perdere qualche lettore o spettatore che non si è sentito sufficientemente coinvolto dal racconto. Il limite non è solo morale, è anche deontologico.
Penso a tutti i bambini i cui volti resteranno per sempre immortalati in condizioni di estrema sofferenza, confusione, dolore, desolazione. Bambini che scappano dalle loro città in guerra e si trovano loro malgrado sottoposti a un’esposizione mediatica che potrebbe avere gravi conseguenze per il loro futuro. Come se i traumi subiti non fossero sufficienti. Come se, oltre all’intervento del Garante per la protezione dei diritti personali di un paio di mesi fa, non esistesse la Carta di Treviso a regolamentare l’informazione sui minori.
Cristina Resmini