Se in questi giorni vi è capitato di prestare ascolto a quel che sta accadendo nella politica italiana, può darsi che vi siate imbattuti in alcune notizie, sempre riflettenti la complicata situazione internazionale, che però riguardano la questione spinosa delle spese militari. In particolare, si è parlato del loro aumento al 2% del Pil. Cosa comporta, però, questo impegno? Con chi lo stiamo prendendo? E, soprattutto, cosa significa in termini concreti?
Alcuni hanno detto, seppure confusamente, che no, l’aumento delle spese militari non lo vogliono proprio. Altri, come il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, esponente del Pd, ha sostenuto in un’intervista la necessità di questa manovra, per una questione di affidabilità del nostro Paese nei confronti della NATO. Cosa comporta, però, questa svolta a livello pratico? E, soprattutto, si tratta davvero di una svolta? A rispondere, dalle pagine di Pagella Politica, è un articolo di Laura Loguercio.
Ce lo chiede la Nato
Per parlare di spese militari, non possiamo prescindere dalla cornice di alleanze in cui il nostro Paese è inserito. Tra queste, spicca in questo periodo la Nato, un patto a cui aderiscono 30 Nazioni e che, prima della guerra in Ucraina, in molti non esitavano a definire “cerebralmente morta”, mutuando le parole del presidente francese Macron. La Nato, dicevamo: quest’alleanza può contare sui fondi che i 30 Stati che la compongono le forniscono come finanziamento, sia in modo diretto sia in modo indiretto. E cosa se ne fa di questi soldi? I contributi diretti puntano al finanziamento di operazioni comuni, che vanno dalla difesa aerea al comando e al controllo. Ognuno, in questo caso, contribuisce secondo il RNL, vale a dire ciò che residua sottraendo al Pil i redditi guadagnati o pagati alle persone e alle aziende straniere e che si indica come “reddito nazionale lordo”.
2,5 miliardi di euro
La Nato oggi può contare su un bilancio di 2,5 miliardi di euro: per quanto astronomica, si tratta comunque di una cifra piuttosto limitata se si guarda alle dimensioni dell’organizzazione. Gli Stati che contribuiscono per la maggior parte sono Germania e Stati Uniti, che finanziano ciascuna il 16,3 % dei fondi diretti, a cuo fanno seguito il Regno Unito, con l’11,2%, la Francia, con il 10,5% e, in quinta posizione, l’Italia, con l’8,3%.
Finanziamenti anche indiretti
C’è poi tutta la questione dei finanziamenti che, in modo indiretto, permettono alla Nato di svolgere le sue funzioni: è il caso dei Paesi che inviano strumenti e militari negli scenari di guerra. Ogni Stato, in questo caso, è abbastanza libero: può decidere a che tipo di operazioni partecipare, se via nave, via terra o per via aerea, o se limitarsi a fornire aiuti umanitari. In questo caso, si tratta di risorse stanziate su base volontaria da ogni singolo Paese e le spese sono dunque a carico di quest’ultimo. “Abbastanza libero”, però, abbiamo detto: sì, perché per fare in modo che l’alleanza sia efficace e che ogni membro contribuisca, i vari Paesi devono stanziare per la difesa nazionale una cifra equivalente almeno al 2% del Pil.
Spese militari vincolanti?
Questa decisione arriva da un vertice Nato svolto a Riga, in Lettonia, nel 2006. Qui i ministri della difesa dei vari Paesi avevano parlato della volontà di “lavorare a questo obiettivo” del 2%: durante la conferenza stampa era stato specificato che non si trattava di un vincolo formale, ma di una volontà di impegnarsi insieme per questo scopo. La formalizzazione di questa linea ha impiegato 8 anni a trovare concretezza e a forzarla è stata l’annessione della Crimea da parte della Russia. Durante un’altra conferenza NATO, questa volta in Galles, si era deciso che tutti i Paesi che spendevano meno del 2% nel settore militare avrebbero dovuto congelare ogni tentativo di riduzione, puntando invece, di fatto, al riarmo in modo da raggiungere, entro il 2024, la soglia del 2%. C’è chi ha fortemente criticato questa cifra, bisogna dirlo, sottolineando come sia stata decisa in modo arbitrario, senza guardare all’effettiva capacità militare di ogni Stato. A far scricchiolare l’impalcatura della decisione, c’è poi l’assenza di conseguenze: chi non raggiunge il 2% del Pil, non incorre in nessun tipo di sanzione.
E il nostro Paese?
La relazione del nostro Paese con le sue spese militari è piuttosto ondivaga: tra il 1960 e il 1974, in piena Guerra Fredda, la soglia del 2% era ampiamente superata, con una punta di quasi il 3% nel 1966. Dopo il 1990, però, la spesa militare si è decisamente contratta. Nel 2014, anche l’Italia faceva parte del gruppo sottosoglia, destinando l’1,4% del Pil all’ambito militare. Sopra la sufficienza c’erano invece solamente Stati Uniti, Regno Unito e Grecia. L’esame è stato superato nel 2021 da altri sette Paesi, tra cui per esempio la Polonia. Germania, Italia e Spagna, invece, ancora lo scorso anno non avevano raggiunto l’obiettivo, contrariamente alla Francia. Il nostro Paese, però, ha raggiunto uno degli altri scopi previsti: del 2%, infatti, almeno il 20% avrebbe dovuto essere destinato ai “major equipment”, cioè l’acquisto e la ricerca in merito alle attrezzature militari e questo, anche se non sul totale del 2%, effettivamente avviene anche da noi.
Percentuali che, invece, impallidiscono di fronte a quelle fuori dall’Europa: nel 2020, la spesa militare del pianeta si aggirava intorno ai 1.981 miliardi di dollari: aveva registrato già un aumento del 2,6% rispetto al 2019 e del 9,3% rispetto al 2011. Nel 2020, erano stati gli USA con 778 miliardi di dollari (+4,4% rispetto al 2019, -10% rispetto al 2011) ad aggiudicarsi il primato del maggiore aumento, seguiti da Cina, India e Russia. Quest’ultima si attestava su una spesa di 61,7 miliardi.
Spese militari per tutti, nessuno escluso
A sottoscrivere l’impegno, comunque non del tutto vincolante del 2014, era stato il governo Renzi e quelli che si sono succeduti hanno ribadito l’adesione alla linea: sì, anche Giuseppe Conte nel 2019, nonostante in questi ultimi giorni stia tentando di smarcarsi dalla questione. A dire il vero, si è trattato, come già evidenziato, di un compito che l’Italia ha svolto in modo incompleto e senza troppo fervore, a causa anche degli altri vincoli di bilancio che gravavano sul nostro Paese.
La storia delle nostre spese militari
Sì, quindi. Il nostro Paese dal 2014 ha aumentato le sue spese militari, anche se rimane molto lontana dal 2%. Partiva da un 1,1% del Pil nel 2014 ed è poi arrivata a un timido 1,4% nel 2021.
Come evidenziato sempre da Loguercio attraverso i dati dell’Osservatorio Milex, raggiungere l’obiettivo del 2% ci costerebbe 13 miliardi di euro in più, da aggiungere al budget annuale in materia di difesa. Nel 2022, è fissato a 25 miliardi di euro che, quindi, dovrebbero arrivare a 38, se volessimo seguire questo orientamento. La coperta, però, è corta: aumentare le spese militari significherebbe sottrarre ad altri settori della vita del nostro Paese questi 13 miliardi.
E gli altri che fanno?
Maggiore spazio di manovra ha invece la Germania che, secondo quanto detto da Olaf Scholz qualche giorno fa, stanzierà 100 miliardi di euro in più proprio per raggiungere l’obiettivo del 2% nelle spese militari. La guerra di quest’ultimo mese ha portato molti Paesi geograficamente esposti a correre ai ripari: la Polonia, già oltre la soglia nel 2021, ha affermato l’intenzione di raggiungere il 3% nel 2023 e anche la Lituania sembra orientata a una decisione di questo tipo. Più cauta, invece, la Danimarca che, tra l’altro, è anche l’unico Paese europeo a non appartenere all’Agenzia Europea per la difesa: ha già previsto un referendum per l’1 giugno in cui chiederà ai suoi cittadini se ritengano opportuno l’aumento delle spese militari a fianco dell’UE.