L’arte nasce come processo intimistico, l’artista è colui che cerca di trasmettere attraverso un quadro, una scultura, una poesia, una grafica, una fotografia, un disegno, uno scritto un messaggio di “bellezza” o una provocazione intelligente che ci induca a riflettere. Ma quando l’arte viene usata per incitare la violenza e l’odio non è più arte…
A Firenze, qualche giorno fa, in un’edicola veniva venduta una borsa dove emergeva una sequenza grafica di una coppia che litiga; Lei che urla contro di Lui con la scritta: “problem” e nella vignetta successiva lui spinge lei giù, facendola precipitare con la scritta: “solved“, il problema è risolto. Praticamente uno slogan pro femminicidio. L’edicolante è stato multato dai vigili urbani con una multa di 160 euro ai sensi dell’articolo 30 del regolamento di polizia urbana che vieta la vendita di “oggetti che offendano il pubblico decoro” e dunque rimosso dalla vendita l’oggetto. Invece, che provvedimenti saranno presi per il titolare dell’azienda, in questione, che ha prodotto un oggetto del genere?
L’assessora Del Re promette dei controlli più serrati e si auspica che non accada più, scherzare su questi temi ed incitare alla violenza è inaccettabile soprattutto in questi tempi dove non è possibile abbassare la guardia.
L’Agenzia Nazionale Stampa Associata, ANSA, ha dedicato il 2 maggio uno speciale all’argomento: in Italia ogni anno vengono uccise cento donne da uomini che sostengono di amarle. Una vera è propria carneficina e sono migliaia le donne perseguitate, picchiate, sfregiate e secondo i dati Istat quasi 7 milioni le donne che nella propria vita hanno subito un abuso.
Per approfondire l’argomento la redazione di Ultima voce ha contattato l’avvocata Flavia Rizzica di Orvieto dove svolge consulenza legale presso il Centro Antiviolenza che opera nel circondario di Orvieto “L’Albero di Antonia”; il Centro Antiviolenza come ci spiega l’avvocata Rizzica è un luogo nel quale vengono accolte le donne che hanno subito violenza. Ivi grazie ai numerosi altri servizi offerti, le donne sono coadiuvate nel loro percorso di uscita dalla violenza con modalità che si fondano sul principio per noi basilare del rispetto della loro autodeterminazione nella ricerca di soluzioni e risposte al problema vissuto. In tutti i CAV appartenenti al Di.Re si condividono i seguenti principi nello svolgimento del loro impegno: 1 processo di empowerment (rafforzamento) delle donne al fine di riguadagnare potere e controllo sulle proprie vite. 2 valorizzare per le donne vittime il fatto di condividere la stessa esperienza con altre donne in situazioni simili.3. l’impegno a rispondere ai bisogni dei figli e delle figlie delle donne che hanno subito violenza, e quindi a riconoscere anch’essi vittime della violenza maschile.
Di cosa si occupa nello specifico all’interno del Centro Antiviolenza?
L’avvocata Rizzica risponde:
Quotidianamente pertanto mi occupo di femminicidi , termine questo con il quali si definiscono i gesti di violenza che sottendono una realtà complessa di oppressione, di disuguaglianze, di abusi, di violenza e di violazione sistematica dei diritti delle donne e discriminazioni di genere, e comprendono non solo la violenza fisica, ma anche quella economica, sessuale e soprattutto quella psicologica (intimidazioni, umiliazioni, minacce, offese, atteggiamenti che tendono a svilire l’altra persona).
La generale sottovalutazione della questione della permanenza degli stereotipi sulle donne radicati nel substrato socio-culturale è molto più pericolosa e dannosa di quanto si possa pensare, poiché l’idea della divisione di ruoli e l’esistenza di relazioni di potere disuguali tra donne e uomini, sono invece fattori che costringono la donna a permanere in una condizione di subalternità e che sono fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nelle nostre società. Infatti in genere, tutte le forme di violenza sopra considerate sono condotte funzionalmente attuate per mantenere le vittime in una condizione di subordinazione rispetto l’altro sesso, e/o comunque sono quasi sempre tendenti a mantenere immodificati determinati ruoli all’interno delle relazioni personali e direi anche sociali.
L’uccisione, o gli atti estremi di violenza fisica sulle donne, che le colpiscono proprio perché donne, non costituiscono incidenti isolati, frutto di perdite improvvise di controllo o di patologie psichiatriche, ma si configurano come l’ultimo atto di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico, fisico o sessuale, e sono sempre dirette al mantenimento di una situazione di abuso di potere di un soggetto sopra un altro.
Nella mia esperienza ho infatti potuto constatare che gli atti più estremi di violenza si verificano soprattutto quando le donne iniziano a non accettare determinati squilibri nelle relazioni con l’altro sesso, ed esprimono una qualsiasi volontà di autonomia o la volontà di non accettare il ruolo stabilito dagli stereotipi sociali. Non è un caso che molte donne vengono uccise quando decidono di lasciare il compagno.
Gli uomini che generalmente usano violenza psicologica, o economica o sessuale verso la propria compagna, spesso se questa si rassegna adeguandosi a determinate condotte agite contro di loro (, continua ad accettare il proprio ruolo, la subalternità assegnata) non arrivano neanche ad usare violenza fisica su quest’ultima. Non è infrequente che in questi casi la violenza che non raggiunge l’aspetto della fisicità non viene riconosciuta come tale, ne dalla donna stessa, né dagli operatori sociali non esperti in materia. Troppi sono i casi sommersi di violenza che non giungono all’attenzione di nessuna autorità pubblica.
In sintesi ogni singolo caso di violenza su una donna riflette un problema sociale che attiene alla dimensione dell’oppressione e della disuguaglianza tra uomini e donne, rilevando la complessa relazione tra la violenza e la discriminazione sessuale. Il femminicidio, a differenza da quanto si possa comunemente ritenere, non si configura come un fatto isolato che accade all’improvviso, ma costituisce l’ultimo atto all’interno di un ciclo della violenza e individua una responsabilità sociale nel persistere, ancora oggi, di un modello socio-culturale patriarcale, in cui la donna occupa una posizione di subordinazione, divenendo soggetto discriminabile, violabile, uccidibile. Sul piano dei comportamenti individuali, il femminicidio può essere visto come la massima espressione del potere e del controllo dell’uomo sulla donna, l’estremizzazione di condotte misogine e discriminatorie fondate sulla disuguaglianza di genere, per questo è importante intervenire a contrastare episodi sociali che rafforzano determinate mentalità che risultano per l’esperienza fin qui maturata molto più nocivi di quanto si possa pensare.
Era doveroso contattare chi si occupa di Femminicidio, in modo professionale, e che ci abbia svelato i meccanismi psicologici che si instaurano tra vittima e carnefice, ringraziando l’avvocata Flavia Rizzica per il suo tempo concesso alla redazione e augurandole un buon lavoro, augurandoci che le violenze sulle donne possano cessare di esistere.
Patrizia Previte