Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana (Fondazione G. Feltrinelli, 2019) di Marco Omizzolo racconta più di un decennio di ricerche, indagini e battaglie a fianco dei braccianti indiani nelle campagne dell’Agro Pontino
La vita sotto padrone
Sono racconti che non possono lasciare indifferenti, storie di quotidiano sfruttamento e di disintegrazione della dignità umana. La vita sotto padrone si riduce a un’esistenza senza diritti e senza tutele. Il lavoro nei campi è massacrante. Si lavora per 10 o 12 ore (a volte anche di più) per sei giorni a settimana e in alcuni casi anche la domenica.
Le condizioni a cui questi braccianti sono sottoposti sono sfiancanti: devono sopportare qualsiasi variazione meteorologica, a seconda dei casi lavorare in ginocchio tutto il giorno o senza alcun dispositivo di protezione, l’unica pausa concessa è un’ora per sfamarsi.
Tutto questo mentre sopportano le urla e gli insulti dei caporali che ordinano di velocizzare il lavoro e di non lamentarsi. Se le grida non bastano si passa alle botte e in casi estremi al fucile. A tutto ciò corrisponde una retribuzione variabile di 2, 3 o 4 euro l’ora, mediamente circa il 50% in meno della paga prevista per legge. Spesso la misera cifra promessa viene addirittura erogata in ritardo o trattenuta dal padrone.
Doping e violenza
Ma non basta. I braccianti devono anche pagare i caporali per farsi trasportare sul luogo di lavoro su furgoncini stipati e pericolanti. In alternativa sono costretti a percorrere chilometri in bicicletta o a piedi per giungere ai campi. Stremati dopo una giornata di fatica e di ingiurie, si rifugiano in capannoni o tuguri affollati dove spesso mancano i servizi essenziali e per i quali devono corrispondere un affitto al padrone.
Non c’è da stupirsi che alcuni di loro per poter resistere all’insopportabile e nel terrore di perdere il lavoro ricorrano a droghe, o meglio al doping, per non crollare fisicamente e psicologicamente. Per i braccianti sikh, la cui religione impone uno stile di vita particolarmente morigerato e attento alla preservazione del corpo, è un’ulteriore violenza poiché sono costretti a venire meno ai loro principi morali per poter sopravvivere.
Omizzolo riporta anche storie di donne braccianti, principalmente indiane e rumene, ugualmente sfruttate, pagate generalmente il 20% in meno dei colleghi uomini e per giunta costrette a subire ricatti sessuali dai padroni italiani.
Pratiche di resistenza
Il valore del lavoro di Omizzolo non si limita alla già importante attività di ricerca e alla diffusione delle testimonianze dei braccianti e delle braccianti sfruttate. Il suo sforzo di osservazione e di comprensione, che lo ha portato fino in Punjab per conoscere approfonditamente la cultura sikh e per indagare sul traffico di esseri umani, fa tutt’uno con l’urgenza di giustizia sociale che lo porterà, insieme ai braccianti, ad affrontare battaglie comuni.
Capire, dunque, per agire nella direzione di un cambiamento sempre possibile, per riconoscere dignità, libertà e giustizia a chi non le ha mai conosciute
Da questa volontà nascono inchieste, vertenze e denunce, ma anche iniziative importanti, come il progetto Bella Farnia portato avanti con l’associazione In Migrazione. L’obbiettivo principale di questo progetto era lavorare insieme ai braccianti indiani e alle loro famiglie, e non semplicemente per loro, attraverso un’organizzazione orizzontale e un attento ascolto delle loro esigenze e necessità. Oltre all’insegnamento della lingua italiana, era fondamentale aiutare queste persone a prendere coscienza dei propri diritti lavorativi, ma anche accompagnarli nel disbrigo di pratiche burocratiche o fornire loro assistenza legale.
Un grande sciopero per i diritti
Grazie a questo progetto e alla collaborazione costante i braccianti indiani potevano finalmente diventare autonomi. Omizzolo sottolinea che in nessuna circostanza si cercava di convincerli a denunciare i loro sfruttatori. La priorità era costruire insieme a loro un percorso di consapevolezza sui propri diritti e sulle possibili azioni da intraprendere, conoscendone anche i rischi. Fu possibile in questo modo arrivare ad un punto di svolta nella lotta contro le agromafie, attraverso un grande sciopero il 18 aprile 2016 che vide uniti braccianti indiani e italiani, lavoratori, famiglie e sindacati.
Non fu l’unico traguardo raggiunto dalla comunità indiana e da Omizzolo, ma fu uno dei più importanti. Migliaia di braccianti schiavizzati e invisibili si erano finalmente mobilitati e mostrati pubblicamente per rivendicare i loro diritti. Con un gesto pacifico ma rivoluzionario queste persone avevano dimostrato che era possibile battersi contro l’ingiustizia e lo sfruttamento.
Reagire insieme
La forza del racconto di Marco Omizzolo è quella di una narrazione in prima persona, ma si tratta soprattutto di una prima persona plurale. Dietro questa storia c’è un noi, una collettività, un impegno comune. Il sociologo, senza venire meno ai suoi obbiettivi di ricerca, diventa presto un confidente, un amico e un compagno di lotta. Fino a vestire letteralmente i panni dell’oppresso e trasformarsi in un bracciante indiano per condurre un’indagine. È solo l’ultimo passo di un’identificazione già avviata idealmente ed empaticamente.
Nonostante le minacce, le intimidazioni e le difficoltà, Omizzolo porta avanti il suo prezioso lavoro. Senza dimenticare che le agromafie sono un fenomeno complesso, estremamente abile nel riadattarsi e ricostruirsi per sopravvivere e continuare a guadagnare sullo sfruttamento. Consapevole allo stesso tempo che combatterle è possibile e necessario, attraverso le scelte che facciamo e con il coraggio di camminare uniti verso la libertà.
Giulia Della Michelina