La violenza maschile contro le donne attraversa frontiere nazionali, rivelando una preoccupante violazione dei diritti umani e una profonda disuguaglianza di genere. I casi di femminicidio, sempre più spesso documentati dai mezzi di comunicazione, rischiano di essere banalizzati a tal punto da intorpidire la società di fronte a questa narrativa di terrore.
Nonostante le molteplici sfide che la società affronta in questi giorni, un triste costante persiste nel nostro paese: la violenza maschile contro le donne. Questa drammatica realtà continua a manifestarsi nelle società di tutto il mondo, rappresentando una violazione fondamentale dei diritti umani e una manifestazione chiara delle disuguaglianze di genere profondamente radicate. La cronaca dei femminicidi riempie le pagine dei giornali con una frequenza allarmante, rischiando quasi di abituare la società a questo orribile fenomeno e contribuendo, in un certo senso, a rendere “normale” agli occhi di molti.
Una delle ragioni per cui la violenza contro le donne persiste, con una media di circa 8 femminicidi al mese nel nostro paese, è legata alla struttura stessa della società, che spesso perpetua stereotipi di genere nocivi. Questi stereotipi contribuiscono a creare un clima in cui la violenza è normalizzata o giustificata, dando luogo a una cultura che tende a minimizzare o addirittura ignorare i gravi atti di aggressione perpetrati contro le donne. Questo, a sua volta, crea un circolo vizioso in cui le vittime possono essere riluttanti a denunciare gli abusi oa cercare aiuto, temendo di essere giudicate o stigmatizzate.
Inoltre, la violenza contro le donne è spesso radicata nelle dinamiche di potere e controllo. Gli aggressori cercano di mantenere il controllo sulle loro vittime attraverso il terrore e l’intimidazione, rendendo estremamente difficile per le donne liberarsi da queste situazioni oppressive. La paura delle ripercussioni, insieme alla mancanza di risorse a disposizione per le vittime, può rendere difficile la fuga da situazioni di abuso.
Malgrado le dichiarazioni di intenti da parte di molti, la lotta contro la violenza maschile sulle donne non sembra arrestarsi; anzi, le caratteristiche di questo fenomeno rimangono costanti nel loro manifestarsi. Ampliando la prospettiva oltre le singole tragedie dei femminicidi, emergono evidenze di una situazione in sufficientemente affrontata, nonostante l’esistenza di leggi a tal riguardo.
Prendendo ad esempio le ultime settimane:
- Il 21 luglio, Mariella Marino è stata uccisa da Maurizio Impellizzieri, il suo ex marito. Quest’uomo era stato già denunciato e aveva ottenuto una riduzione della pena grazie a un percorso presso il CUAV. Questo caso è uno dei molti in cui un uomo coinvolto in un femminicidio aveva seguito un percorso simile.
- Il 24 luglio, Vera Maria Icardi è stata uccisa dal marito Claudio Coli Cantone, il quale poi si è suicidato.
- Il 28 luglio, Angela Gioiello è stata uccisa dal marito Antonio Di Razza, il quale poi si è tolto la vita. Angela voleva lasciarlo a causa delle violenze subite.
- Nello stesso giorno, Mara Fait è stata uccisa con un’accetta da Ilir Zyba Shehi, il suo vicino di casa a Rovereto. Nonostante le segnalazioni di stalking da parte di Mara, le autorità avevano sottovalutato il pericolo.
- Il 29 luglio, Sofia Castelli è stata uccisa dall’ex fidanzato Zaquaria Atqaoui, il quale non accettava la fine della relazione.
- Il 2 agosto, a Reggio Calabria, una donna è stata accoltellata sei volte dall’ex marito, che non accettava la sua decisione di separarsi.
La sequenza di questi recenti femminicidi, anche se in un breve lasso temporale, evidenzia circostanze allarmanti che richiedono un’attenta riflessione. È particolarmente preoccupante l’utilizzo dei CUAV (Centri per Uomini autori o potenziali autori di violenza) come strumento giuridico, ed esprime la mancanza di adeguato monitoraggio e la possibilità che tali centri possano essere sfruttati per ridurre i tempi della pena. Questo indebolisce l’efficacia del percorso di recupero e minimizza la gravità dell’azione violenta, ignorando il rischio di recidiva, viene denunciato da associazioni delle donne e centri antiviolenza.
Le istituzioni e le leggi che dovrebbero proteggere le donne spesso falliscono nel fornire una risposta adeguata. La lentezza della giustizia, la mancanza di sensibilità nei confronti delle vittime e la scarsità di risorse destinate a combattere la violenza di genere possono contribuire alla perpetuazione di questo ciclo nefasto.
È altresì evidente la necessità di una formazione approfondita e verificata sulla violenza maschile contro le donne per tutte le figure istituzionali e professionali coinvolte. La Convenzione di Istanbul sottolinea che alla radice della violenza maschile sulle donne vi è un dislivello di potere che alimenta una misoginia costantemente tollerata dalla società. Questo aspetto richiede interventi normativi più incisivi, finalizzati a un cambiamento culturale a tutti i livelli dell’istruzione, del finanziamento e della supervisione.
Se davvero vogliamo porre fine a questa tragica realtà e garantire un futuro sicuro e libero per tutte le donne, occorrerà sradicare gli stereotipi di genere, rafforzare le leggi e le istituzioni dedicate alla protezione delle vittime e promuovere una cultura di rispetto e uguaglianza.