Sondaggio: la democrazia 24 ore su 24

Ora è il nostro pane quotidiano, ma non è sempre stato così. L’ondata di sondaggi che travolge ogni giorno milioni di italiani sembra essere l’unica applicazione razionale della scienza all’ambito politico.

Eppure trattasi di un fenomeno relativamente recente, che ha le sue radici, come tanti fenomeni attuali, nei nostri anni 90′. A ridosso del crollo del muro di Berlino, sui corpi ancora caldi delle ideologie manichee, esplode nel bel paese la “sondaggio mania”. A diffondere il contagio di un’abitudine ora affermata fu un imprenditore non più tanto giovane e con qualche zona d’ombra su conti offshore svizzeri di dubbia provenienza. Ci hanno fatto anche alcuni film. In uno lo chiamano semplicemente “Lui”.




Esatto, Forza Italia è stata la prima forza politica italiana e sfruttare il sondaggio in tutte le sue sfumature applicative. Si potrebbe dire che il partito, nato a ridosso della crisi politica dei primi anni novanta, sia interamente costruito secondo le logiche del sondaggio. Il nome, i colori, i simboli, i vestiti. Chi non ricorda il rampante imprenditore, splendente alla luce artificiale di uno studio televisivo nel suo doppiopetto di alta sartoria, mostrare fotogenici sorrisi al grigio e pallido Occhetto che in quell’occasione vide impantanarsi la sua gioiosa macchina della guerra? Sondaggi, sì, anche sugli abiti, anche sui denti.

Le vicende del sondaggio in Italia sono quantomeno singolari. Il metodo nasce in America, negli USA, applicato al campo economico-commerciale ovviamente. In un’economia come quella statunitense prevedere le preferenze dei consumatori divenne presto di vitale importanza. La vera e propria economia di massa, la concorrenza spietata, la produzione lanciata verso vertiginosi futuri lidi, aveva poco a che fare con l’Italia del primo Novecento. Dal mercato alla politica poi, si sa (e “Lui” ne è una dimostrazione), il passo è breve. Così gli americani applicarono la tecnica del sondaggio nello studio dell’andamento delle campagne elettorali di Roosvelt e Landon. Era il 1936, l’Italia viveva gli anni centrali del dominio fascista.

Fu proprio allora che gli ambasciatori italiani in USA cominciarono ad interessarsi al fenomeno del sondaggio. Capire, possibilmente in anticipo, la scelta dell’elettorato americano, avrebbe voluto dire essere a conoscenza dell’opinione pubblica statunitense sull’intervento armato nel secondo conflitto mondiale. Con un certo margine avrebbe permesso di giocare in anticipo, cercando di appoggiare il candidato non incline all’intervento con tutti i mezzi, compresa la propaganda in favore degli italo-americani. Per i fascisti il sondaggio non aveva avuto bisogno dell’applicazione economica, si era passati direttamente alla politica.

Nei fatti, poi, questo fu l’unico modo in cui il fascismo utilizzò il sondaggio. Ovvero come strumento di osservazione della situazione politica dei paesi nemici, mai come esame dell’andamento dell’opinione pubblica italiana, se non in segreto. E questo fu ben chiaro anche a Pierpaolo Luzzatto Fegiz, lo statistico italiano che dal 1942  raccomandò l’utilizzo del sondaggio in politica come mezzo democratico, il quale poté solo raccomandare lo strumento e cercare di non subire la censura del regime.

Nel 1943 furono gli americani arrivati in Italia con il conflitto a proporre un sondaggio sull’approvazione dell’intervento statunitense agli abitanti del Paese ormai immerso in un dramma senza scampo. La risposta positiva portò gli statistici a considerare il sondaggio quale scienza esatta e universale. La storia dimostrò che si sbagliavano. I sondaggi sulla Brexit e quelli sulle presidenziali in USA nel 2016, sono esempi lampanti di come il metodo non sia perfetto e invincibile.

Ma tornando a noi, il sondaggio fu usato in Italia nel 1946 in occasione del referendum costituzionale che vide vincere la Repubblica. Fu poi Amintore Fanfani, presidente del Consiglio dal 1960 al 1963 a farne uso in rare occasioni. Di seguito nessuna comparsa, nessuna importante applicazione, niente. Fino agli anni 90′ e quell’imprenditore di cui si parlava sopra.

Ora, sembrerà un’affermazione esagerata, ma, davvero, i sondaggi non sono la realtà.

Rimbalzano di canale in canale, da testata a testata, da tweet a tweet, soprattutto dopo le elezioni Europee di quest’anno, le manifestazioni di accorato affetto per questo metodo di indagine demoscopica che viene spesso accostato alle stesse elezioni, quasi a un voto implicito. Sì non l’hanno detto, però si vede che lo pensano, quindi l’hanno praticamente detto, o almeno l’hanno pensato molto intensamente, che equivale quasi a realizzarlo. Non a caso rimbomba negli studi televisivi l’aggettivo “plastico”: ne è una dimostrazione “plastica”; l’evidenza “plastica” di tale principio; la realizzazione “plastica” del pensiero di quel tale. In effetti un aggettivo utile a rendere tangibile qualcosa che di base non lo è.

Sembra quasi ci si sia scordati che plastici siamo noi, mentre le nostre opinioni, solitamente, sono abbastanza astratte, immateriali, al limite fumose, qualche volta soporifere. La scelta di votare, di far valere un proprio diritto, non sempre coincide con l’umore di una giornata. Di umori è già fatta l’adolescenza, forse la politica è troppo anziana.

Paolo Onnis 

 

Exit mobile version