Il sionismo come colonialismo di insediamento è stato a lungo il quadro ideologico di riferimento dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina ma non è riuscito mai a fornire una base teorica concreta per l’elaborazione della proposta di uno Stato unitario, democratico e non confessionale nella Palestina storica. L’era degli Accordi di Oslo sembrava poter invertire questa tendenza, promuovendo un discorso incentrato sulla coesistenza e sulla formula ‘due popoli-due stati’. Ma le resistenze dello stato israeliano sulla decolonizzazione dei territori occupati della Cisgiordania hanno sempre impedito l’avanzamento di un processo di pace risolutivo e equamente condiviso.
Soltanto uno stato palestinese può salvare Israele e interrompere il circolo vizioso del colonialismo d’insediamento. È una frase pronunciata migliaia di volta, una di quelle espressioni random che salta fuori quando il conflitto tra arabi e Israeliani si riaccende con ondate più o meno ampie di violenza e morte come è accaduto lo scorso 7 ottobre.
Del resto, quella della Palestina è da sempre una storia di colonialismo e espropriazione che si ripete ormai ciclicamente da secoli. Già nel mondo antico, i regni israeliti furono autonomi per un periodo relativamente breve della loro storia, prima di conoscere, in ordine, il dominio assiro, neo-babilonese, persiano, ellenistico e romano. E con l’incedere dell’età contemporanea le cose non sono cambiate affatto; così con la fine della Prima Guerra Mondiale e il disfacimento dell’impero ottomano, la Palestina è entrata far parte dei possedimenti del Regno Unito dopo quattrocento anni di dominio turco.
Dopo soli quattro anni, nel 1922, il Regno Unito decise di separare l’amministrazione della Transgiordania da quella della Palestina, limitando l’immigrazione degli ebrei ai territori situati ad ovest del fiume Giordano. La decisione suscitò le proteste dei cosiddetti sionisti revisionisti che avrebbero voluto estendere la loro futura patria su entrambe le rive del Giordano. Nei successivi 25 anni (1922-1947), i territori palestinesi diventano il centro di una massiccia ondata migratoria. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale molti degli ebrei in fuga dall’Europa si rifugiano in Palestina: la popolazione ebraica passa da poco più di 80 000 abitanti agli inizi degli anni 20 ai circa 610 000 nel 1947.
All’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale e dopo la cessazione del mandato britannico sui territori palestinesi, furono le Nazioni Unite a dover tentare di risolvere il conflitto fra ebrei e arabi palestinesi; tra una popolazione che abitava in quei luoghi da tempo immemore e un’altra che vi era ‘ritornata’ soltanto alcuni anni prima ma che portava su di sé le orrende cicatrici dell’Olocausto.
Dalla proposta dei due stati all’imposizione di uno stato israeliano
Il 29 novembre 1947 l’Assemblea delle Nazioni Unite approvò a New York Il Piano di partizione della Palestina elaborato dall’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine): la famosa Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale.
Tale Piano, proponeva la partizione del territorio palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con Gerusalemme sotto controllo internazionale. Tuttavia, il progetto delle Nazioni Unite era nettamente a vantaggio d’Israele; i territori messi a disposizione dei nuovi coloni ebrei ammontavano infatti al 56% e comprendevano la maggior parte delle zone più fertili per l’agricoltura, l’accesso esclusivo al Mar Rosso e al lago di Tiberiade, nonché l’arido deserto del Negev.
In totale, la comunità ebraica sarebbe stata beneficiaria di circa il 55% del territorio totale, l’80% dei terreni cerealicoli e il 40% dell’industria della Palestina. La decisione dell’ONU fu dettata in previsione di una massiccia immigrazione dall’Europa da parte degli Ebrei sfuggiti ai campi di sterminio nazisti; tuttavia, al momento del Piano di partizione, la popolazione totale della Palestina era composta per due terzi circa da arabi e da un terzo di ebrei. Basti pensare che la popolazione ebraica rappresentata dallo Yishuv (la comunità ebraica, che abitava la Palestina, ben prima della costituzione dello Stato di Israele) possedeva nel 1948 il 7% di proprietà fondiarie.
L’insostenibile leggerezza dell’ortodossia pacifista
Dopo il 1948, il vocabolario dell’ortodossia pacifista, divenuto corollario indispensabile nel sostegno alla soluzione dei “due popoli-due stati”, sembrava essere in grado di trovare una sua concreta applicazione nei consessi della diplomazia internazionale. Chiaramente, dietro alla irenica volontà di aiutare il popolo palestinese vi erano senza alcun dubbio fredde valutazioni di realpolitik in un periodo di grandi stravolgimenti sul piano internazionale. Tuttavia, sarebbe intellettualmente scorretto non riconoscere che la maggior parte di coloro che, almeno nei primi anni, ricorse al suggestivo linguaggio legato alla formula dei due stati, lo abbia fatto davvero in buona fede.
Sfortunatamente, però, in politica la buona fede non gode di molti estimatori. E così dal 1948 al 1973 al vocabolario della pace tra arabi e Israeliani si è sostituito il breviario della guerra. Dopo la prima guerra arabo-israeliana del 1948, altri due conflitti hanno incendiato il Medio Oriente, la Guerra dei sei giorni nel 1967 e la guerra del Kippur nel 1973, entrambe vinte dallo stato ebraico.
Negli anni ’90 gli Stati Uniti, usciti vincitori dalla Guerra Fredda, provarono a riaprire il tavolo della diplomazia israelo-palestinese; gli storici Accordi di Oslo sottoscritti nel 1993 dal Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin e dall’Olp di Yasser Arafat rivitalizzarono la formula ‘due popoli-due stati’. Sulla base di quegli accordi, si stabilì che i successivi negoziati avrebbero dovuto trovare una propria continuità nel progressivo ritiro israeliano dai Territori occupati nel 1967 in modo da consentire, nel giro di pochi anni, la nascita di uno Stato palestinese.
Ma la realizzazione del formato due popoli-due stati venne rinviata ancora a data da destinarsi. In Israele, lo stallo dei negoziati dovuto alla vittoria elettorale del Likud portò con sé una nuova ondata di radicalizzazione che si propagò anche sul versante palestinese indebolendo ancora l’Anp di Arafat (poi di Abu Mazen). Tutto ciò accadeva mentre la popolazione araba assisteva alla costruzioni di insediamenti da parte di coloni israeliani, protetti dall’esercito, nei territori occupati.
L’unilateralismo delle politiche israeliane
Gli Accordi di Oslo furono definitivamente sepolti nel 2004 quando venne diffuso il contenuto di una lettera dell’allora Presidente Usa, George Bush, indirizzata al Primo Ministro israeliano Ariel Sharon. La lettera dispensava Israele dall’obbligo di ritirarsi entro i confini del 1967, di smantellare le colonie e soprattutto di porre fine alla sua politica di ‘ebraizzazione’ e annessione di Gerusalemme.
Sei anni dopo, nel 2010, i mediatori statunitensi chiamati a liquidare la questione israelo-palestinese confermarono quanto già tacitamente promesso da Bush a Sharon: la marcia indietro di Washington sulla richiesta di “congelamento preventivo” delle colonie, aprì la strada a un nuovo fallimento nei negoziati tra Abu Mazen e Netanyahu. Sempre nello stesso anno, la Knesset (il parlamento monocamerale israeliano) iniziò un processo di riforme che ‘istituzionalizzava’ il comportamento discriminatorio del governo israeliano nei confronti della popolazione palestinese in Cisgiordania.
Nel maggio 2011, il Presidente Barack Obama provò a riportare in vita la soluzione dei due stati dichiariandosi a favore di uno Stato palestinese con limitate “correzioni” concordate dei confini del 1967, lanciando persino quello che venne definito un Piano Marshall per il Medio Oriente.
La Lega araba accettò il principio dello scambio, ma la controparte israeliana si oppose; un secco “no” arrivò, guarda caso, proprio da Benjamin Netanyahu, allora Primo Ministro, che non aveva nessuna intenzione di smantellare gli insediamenti in Cisgiordania. Da parte palestinese, il partito-milizia Hamas e la Jihad islamica rilanciarono per la creazione di uno Stato arabo “dal fiume al mare” in cui non ci sarebbe stato posto per Israele.
Ancora una volta la questione tornava a essere ostaggio di due opposti estremismi mentre il “rebalancing” dall’Europa e dal Medio Oriente verso l’Asia-Pacifico, predicato da Obama chiudeva tacitamente un occhio sulle vicende palestinesi, strizzando l’altro a Tel Aviv. Il tutto si compiva nella più classica visione realista americana per cui ciò che veramente conta del binomio stabilità/democrazia, non solo in Medio Oriente ma nel mondo in generale, è sempre ovviamente sbilanciato a tutto vantaggio del primo termine.
Un avvertimento e una speranza
Osservando il corso degli eventi, non è difficile vedere come in realtà la soluzione dei due stati sia sempre stata trattata come una non-soluzione. Infatti, anche se storicamente la proposta venne vagliata da intellettuali e politici sionisti prima del 1948 quando la bilancia demografica pendeva a favore dei palestinesi, i rapporti di forza asimmetrici tra lo stato ebraico e l’OLP, fecero desistere Israele dal considerarla un’alternativa conveniente. Altrimenti, non si spiegherebbe perché quasi tutti i governi israeliani abbiano preferito l’espropriazione al dialogo, continuando a levare la terra da sotto i piedi dei palestinesi.
E’ vero, rigettare la soluzione dei due Stati equivale a legittimare la cancellazione di uno dei due popoli che abitano su quella terra; tuttavia, per evitare che ciò accada non basta chiamare in causa una vuota formula retorica vecchia di circa ottant’anni. Alla luce dell’attuale frammentazione della Cisgiordania e della totale anarchia in cui versa la Striscia di Gaza, invasa nuovamente dopo quindici anni dai carri armati israeliani, la soluzione è semplicemente impraticabile.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha ulteriormente aggravato l’intero contesto, esasperato per parte israeliana da un’élite politico-militare che persegue da anni con piglio messianico la trasformazione dei territori palestinesi in entità territoriali satellite circondate da coloni israeliani.
Paradossalmente, sullo sfondo della vuota retorica dei ‘due popoli-due stati’ resterebbe come unica vera alternativa, tutt’altro che utopica, lo scenario di un solo stato davvero democratico e pluralista, capace di ospitare tutti ma soprattutto di difendere i diritti di tutti. Un sogno, questo, sicuramente più realistico di qualsiasi opzione presente oggi nell’agenda dei numerosi capi di stato che si adoperano per riportare in vita una cosa che è già nata morta.