Di Isabella Rosa Pivot
Qualche giorno fa, ho visto il film del 2020 “Il concorso”, che riporta la storia vera di un gruppo di donne stufe dell’immagine che la società ha del femminile. Insieme, escogitano un piano per interrompere gli eventi della competizione di Miss Mondo 1970.
Durante la visione, mi sono soffermata a ragionare su quanti siano stati i nostri progressi verso la parità ed al contempo ad identificare tutti quegli aspetti che, invece, sono ancora molto lontani dal cambiare.
Tra questi ultimi, vi sono sicuramente l’asfissiante ricerca della perfezione estetica, ma anche il peso del giudizio nei riguardi della nostra sessualità: fin da piccole, la nostra educazione si è sempre tenuta ben alla larga dal sesso. Quest’ultimo ci è stato trasmesso come unicamente legato all’amore e al sentimento:
“Non andare a letto con lui subito, o non si innamora”; “non farteli tutti o ti giudicano male”; “gli uomini vanno a letto con le facili e sposano le brave ragazze”: queste frasi vi ricordano qualcosa?
Bombardate dalla necessità dell’amore, a discapito totale di qualsivoglia piacere, siamo state portate ad assegnare alla nostra sessualità un ché di sacro e inviolabile.
Insomma, tutto ci ha portato a credere che il sesso rimanga qualcosa di sporco, se non “concesso” – e non ho usato questo verbo casualmente – ad un amore.
Conta ben poco il livello di emancipazione interna che siamo riuscite a raggiungere: in qualche modo, questo piccolo tarlo, risultato di anni di pensieri indotti, rimane ancorato in un angolo della nostra mente e ci influenza più di quanto crediamo.
Anzi, molto spesso, più diventiamo consapevoli e rifiutiamo i concetti che ci sono stati imposti, più il tarlo si insinua nella zona dei “rigetti mentali” e finiamo nel creare giustificazioni inconsce alle contraddizioni interne che crea.
Quante volte avete consolato un’amica che, all’inizio di una frequentazione, si dichiarava poco o solo carnalmente interessata, per poi ritrovarsi a pezzi, una volta scoperto che anche il partner cercava la stessa cosa? Oppure spariva? Potrebbe apparire un comportamento privo di senso, ma è semplicemente il risultato di anni d’indottrinamento. A questo senso di colpa illogico, ma ancor oggi presente, della donna nei confronti della propria sessualità, ho scelto di dare il nome di “sindrome della prostituta”.
Tutte ne soffriamo un poco, anche solo per brevi periodi. Persino le donne più libere e indipendenti.
Vi riporto un esempio pratico: siamo uscite con un uomo, per il quale non abbiamo sicuramente avuto il tempo di costruire alcun sentimento; quest’ultimo decide di sparire. Sentiremo inevitabilmente attaccata la nostra integrità sociale per il trattamento ricevuto. Al contempo, avremo pensato di aver noi sbagliato qualcosa: almeno una volta avremo detto a noi stesse di essere state troppo “facili”, di esserci “concesse” troppo in fretta. Avremo fatto ricadere la colpa del suo comportamento meschino su di noi, pur sapendo che l’auto-accusa aveva ben poco senso. Giunte a questo punto, avremo necessitato di una giustificazione per un simile malessere della coscienza ed è qui che entra in gioco la “sindrome della prostituta”: ci convinciamo di provare dei sentimenti per questa persona, così da dare un senso a tutte le emozioni; così da non sentirci al pari di prostitute usate ed abbandonate. Se, infatti, la nostra scelta fosse stata guidata da uno spirito d’innamoramento, la nostra coscienza troverebbe più facilmente il perdono.
Perché non importa che anche la nostra intenzione iniziale fosse di puro piacere fisico: una volta attuato il nostro desiderio, ci sentiremo comunque sbagliate… Come se avessimo compiuto un peccato mortale.
Questo pensiero mentale è un residuo della nostra educazione di anni ed è talmente automatico, da sfuggire alla nostra razionalità.
Abbiamo quasi tutte sofferto della “sindrome della prostituta”, convincendoci di provare sentimenti inesistenti per uomini con cui condividevamo solo desiderio carnale e passione; per un rifiuto che ci ha ferito; per sentirci meno sbagliate, anche se non lo siamo state e non lo saremo mai.
Il punto di svolta, di guarigione dalla “sindrome della prostituta”, si raggiunge solo nel momento in cui l’amore per noi stesse valica i confini del pensiero altrui di come dovremmo vivere.
Nel momento stesso in cui il giudizio esterno diventa meno importante della nostra felicità, eliminando la necessità delle scuse.
Posso dire che la prostituzione remunerata è spesso sesso a basso costo, oltre che veloce e nascosto per chi se ne avvale.
Inoltre, affermo d’aver conosciuto diverse donne, che sono tornate in via definitiva al mestiere di meretrice, come madre e figlia, prostitute consapevoli, le quali sfasciavano di continuo le rispettive autovetture di grossa cilindrata.
Non so perché nell’articolo qualificata come una sindrome esclusiva della donna, in realtà si tratta di una sensazione nutrita da ogni persona (donna o uomo) che viene lasciata o sperimenta il ghosting.
Magari indagare prima di giungere alla conclusione che qualcosa sia una problematica di genere, sarebbe preferibile, oltreché doveroso.
Venga qualificata*
Quella che nell’articolo viene intesa come una sindrome esclusivamente femminile è, in realtà, una sensaziome provata da qualsiasi persona (donna e uomo) che viene lasciata (anche a seguito di un rapporto avviato “senza impegno”) o subisce ghosting. È un sentirsi rifiutati, insomma, e coinvolge l’autostima, non il rapporto tra sé e le aspettative sociali. Indagare, prima di giungere alla conclusione che certe dinamiche rientrino in una problematica di genere, sarebbe preferibile e doveroso per evitare disinformazione. E qui la disinformazione sarebbe stata evitata facilmente, bastando chiedere a un campione di uomini se provassero la stessa sensazione alla medesima situazione.