Una società di tabù: le droghe e l’umanità perduta

Fonte: http://www.meteoweb.eu/2013/09/salute-quando-parlare-e-un-tabu-che-puo-condurre-allisolamento-sociale/227104/

L’utilizzo di alcol e droghe da parte dei più giovani è da sempre un argomento caldo, quasi un tabù, che le discussioni pubbliche si rifiutano di affrontare come merita. Torna al centro dei dibattiti semplicemente quando una disgrazia si inserisce all’interno della cronaca quotidiana, com’è successo oggi.

Fonte: http://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2016/11/cranio.png
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Vittorio Bos Andrei, in arte Cranio Randagio, giovane talento conosciuto in particolar modo per la partecipazione alle prime fasi di selezione del talent show X Factor, durante la scorsa edizione, di soli 22 anni, viene oggi trovato morto nella casa di un amico.

Un giallo che sin dalle prime ore ipotizza una morte dovuta a un mix di alcol e droghe, un cocktail letale che ha stroncato così la vita del giovanissimo talento dai capelli rasta e uno stile riconoscibilissimo.

Sarà l’autopsia a confermare o meno l’ipotesi portata avanti dagli investigatori del commissario Mario Monte, ma lo shock dell’avvenimento ha già creato un grande chiacchiericcio sui social.

Tuttavia tralasciando i giudizi di merito sul caso, prematuri in assenza di una valutazione clinica, è l’ipotesi stessa a riportare al centro dell’attenzione un tema di grande importanza, un problema presente nell’attualità e che però non trova lo spazio educativo che merita.

Quando nell’estate 2015 un 16enne morì per aver assunto una pasticca di ectasy, la tal cosa costò al noto locale della riviera romagnola dove la tragedia si era consumata un stop di 120 giorni. Si scatenò l’ira sui social, un social che tra polemiche delle volte inopportune e verità romanzate, non è detto non si faccia eco di parole altrimenti non dette.

Fonte: http://www.riminitoday.it/cronaca/riapre-il-cocorico-riccione-quando-data-dicembre-2015.html

Sarebbe stata la chiusura di un locale un deterrente all’utilizzo delle droghe? E fino a che punto i responsabili di un esercizio pubblico di tali dimensioni possono impedire l’utilizzo di droghe?

Quanto il consumo di droghe è invece di matrice culturale, frutto dell’assenza di una sede educativa adeguata che valuti senza preconcetti la questione e si faccia quindi vero strumento deterrente a un problema oggi più che mai reale?

Non è questa la sede per valutare “gli usi e i significati sociali” nel consumo delle droghe. È possibile tuttavia dare qualche risposta, seppur azzardata, a quegli interrogativi che un anno e mezzo fa venivano posti.

Non sono certo i locali, le piazze o i parchi le cause dell’utilizzo di sostanze stupefacenti. Ci troviamo di fronte a un problema culturale, un problema interno alla società, e la legiferazione coercitiva e proibizionista che dagli anni ’70 in poi è stata portata avanti, in questo senso, si è rivelata un pudico mezzo da vigliacchi che anziché affrontare il problema con l’attenzione che merita, ha rimandato ad altre sedi la risoluzione.

Il risultato è stato quello dell’alimentazione del mercato illegale, aumentando anziché diminuendo la fruizione di droghe, in una maniera ben più pericolosa in quanto non controllata.

La Fondazione Labos, Laboratorio per le politiche sociali, all’interno di una ricerca condotta nel 1986, nel descrivere l’emergenza sociale della non sola tossicodipendenza, ma anche di quell’uso occasionale che non va dimenticato, ha denunciato quanto sia spesso “trascurata, se non dimenticata, la estrema varietà dei sistemi simbolici e di significato che sottendono all’uso” di sostanze stupefacenti; “ si realizza, cioè, una operazione di centralizzazione della sostanza mentre l’uomo diviene elemento di sfondo.”

Ci troviamo di fronte a un problema culturale, un problema interno alla società, e la legiferazione coercitiva e proibizionista che dagli anni ’70 in poi è stata portata avanti, in questo senso, si è rivelata un pudico mezzo da vigliacchi che anziché affrontare il problema con l’attenzione che merita, ha rimandato ad altre sedi la risoluzione.”

Cosa significa?

Sostanzialmente che lo stato nel legiferare contro l’utilizzo delle droghe ha perso di vista la persona e la sua tutela. In questo senso, la segnalazione della persona per l’utilizzo di sostanze diventa una fredda condanna, che anziché educare, si ferma all’aspetto legale della punizione.

E quel problema sociale che ci trasciniamo da anni diventa così ridotto a una pura questione di materia giuridica che tuttavia non trova i modi e le forme giuste con cui possa essere risolto.

Quando si parla di droghe, quando si parla di dipendenze, quando si parla di un problema che ha per oggetto la persona, non possiamo permetterci il lusso di ridurre questa a sfondo insignificante e distante dal problema. Perché l’azione che conduce alla risoluzione parte da lì.

Provate a leggere Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, provate a leggere Altri libertini. Troverete delle storie che parlano di persone, non di droghe. Non avremo una società migliore finché gli individui saranno considerati in quanto cause di un problema che ha radici più profonde e che non può non prescindere dall’educazione.

Un problema che non deve più essere un tabù, che non deve più avere giudizi di merito o preconcetti da contorno, che la dialettica politica deve smettere di affrontare in maniera altezzosa e arrogante e considerare quale fallimento.

Il primo passo per risolvere un problema è semplicemente recuperare l’umanità, oltre la superfice e il dissenso, attraverso la comprensione e la tutela.

Il costo sociale del fenomeno non è mai stato il giudizio, ma la morte. E in questo senso va affrontato.

“Adesso mia madre mi controllava ogni sera le braccia per vedere se c’erano segni di punture fresche. Mi bucavo quindi nella mano, sempre nel medesimo punto. Mi era venuta una macchia scura di crosta. A mia madre raccontai che era una ferita che si rimarginava con difficoltà. Ma a un certo punto mia madre capì che era una puntura fresca. Dissi: “si, chiaro, oggi l’ho fatto una volta. Lo faccio solo raramente. Non fa per niente male.” Mia madre mi picchiò di santa ragione. Non mi difesi. Non mi faceva più nessun effetto. Lei comunque mi trattava come l’ultimo pezzo di merda e ad ogni occasione mi mandava in paranoia. Istintivamente faceva una cosa giusta. Perché un bucomane, prima di essere veramente disposto a cambiare qualcosa, deve non volerne sapere assolutamente più niente della merda e della porcheria. Allora si uccide, oppure utilizza l’ultimo filo di possibilità per venire fuori dall’ero. Ma allora idee di questo tipo non ce le avevo per niente.”

“Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” di Christiane F.

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