Contenutizzazione della guerra: Warfluencers e social media

Il crescente influsso di video di guerra sui social media nel corso degli ultimi anni sta, poco alla volta, normalizzando la presenza di "influencer del conflitto", soldati operanti sui territori di guerra e utilizzanti le nuove tecnologie per riprendersi e creare contenuto.

contenutizzazione della guerra, social media

Mai come adesso, la rete e i social media sono invasi da immagini e video dei conflitti che stanno attraversando il nuovo millennio. I soldati si riprendono durante le operazioni militari, bombardano edifici e danzano sulle macerie, creano edits su come radere al suolo luoghi di culto, discutono in podcast delle violenze compiute.

Warfluencers: influencer di guerra, social media e contenutizzazione della guerra – ottobre 2022, l’ex-soldato dell’Australian Defense Force, Scott Hamilton Jones, posta un video di risposta sul significato dei tatuaggi, affermando che il suo, che raffigura la morte mentre pone un walkie talkie di fianco al cadavere di una madre telabana, perché per le regole di ingaggio dell’esercito, il possesso di un walkie talkie permetteva ai soldati di sparare alla persona in suo possesso. In altri episodi del suo podcast, ora rimosso dalla rete, discute di come egli abbia fatto battute alla vista di dei bambini afghani mentre tentavano di raccogliere i resti del padre ucciso per riportarlo in vita (minuto diciannove dell’inchiesta di Jordan Shanks-Markovina)

@steven_toastog #War #Afghanistan #Afghan #tattoo #scojo @Saint Scojo ♬ original sound – Luke Blovad

2023, un gruppo di influencer utilizzanti principalmente canali di comunicazione come Telegram, noti come “Z bloggers” promuove la guerra in Ucraina attraverso la diffusione di video del confitto, in cui loro prendono parte diretta, con il supporto del governo russo. Sugli stessi canali di comunicazione, vengono postate pubblciità di ogni tipo e richieste di donazioni per finanziare l’invio di migliore equipaggiamento ai soldati.

Marzo 2023, Brynn Woods, veterana statunitense reinventata TikToker pubblica un video a funzione di meme ora rimosso, in cui una mitragliatrice la tenta a sterminare un campo giochi in cui giocano dei bambini afghani.

Gennaio 2024, un soldato dell’Israeli Defence Force posta un video in cui, indossato un costume da dinosauro e ballando, carica dei missili su un carro armato e bombarda una zona che, secondo Middle East Eye, sarebbe la striscia di Gaza.

@middleeasteyeA video circulating on social media shows an Israeli soldier dressed up in a dinosaur costume carrying bombs and launching them into the Gaza strip. He then does a celebratory dance on top of a tank. The Israeli military has come under attack for posting videos on social media which shows them carrying out offensive acts including stealing from Palestinian homes, vandalising buildings and scribbling names of people critical of Israel on bombs.♬ original sound – Middle East Eye

Esempi questi, di una contenutizzazione della guerra, intesa come un elemento proficuo e capace di catturare l’attenzione degli spettatori, uno strumento che, se colto da un’ottica disumanizzante, diventa parte di un nuovo metodo di promozione.

La lunga strada alla desensibilizzazione e alla contenutizzazione della guerra

Su internet si trova di tutto. Una verità che precede i social media, e che ha dato vita a una rappresentazione sempre più diretta della realtà, sia essa voyeuristica, macabra, o cruda.

Un fenomeno complesso, stratificato, che permette sia di superare l’onnipresente velo della censura, sia di desensibilizzare l’utente spettatore a ciò che sta guardando, precedente all’avvento della Rete, e radicato nella cultura mediatica del secondo dopoguerra, ma spinto ai suoi attuali estremi in questo preciso momento storico.

Numerosi studi discutono degli effetti causati da un’esposizione mediatica dell’individuo a episodi di violenza, presentando il rischio della desensibilizzazione in relazione alle reazioni che esse dovrebbero causare. Si tratta di un argomento difficile, che trova da un lato un oggettivo aumento partecipativo ad eventi globali, e dall’altro permette di discutere sull’eticità di rappresentazioni volte invece a scatenare forti emozioni proprio a causa di una maggiore desensibilizzazione dell’utenza, cercando il nuovo, lo scabroso, esaltando quella che definiamo “pornografia del dolore”.

Allo stesso tempo, il progressivo utilizzo dei social media e dell’utilizzo sempre più pervasivo di algoritmi di selezione del contenuto, volti a proporre all’utente contenuti verso cui egli è già predisposto hanno favorito lo sviluppo di un discorso pubblico orientato verso la presa di posizione e la strenua difesa della stessa. La possibilità di instaurare un dialogo fra parti, già precedentemente complesso, è divenuto maggiormente ostico per via della possibilità di ricevere fatti e notizie volte a confermare e radicalizzare la posizione già assunta, e raramente a smentirla.

Ecco che dunque il fenomeno degli influencer di guerra trova un senso. Il contenuto da loro proposto rispetta pienamente le regole del discorso pubblico. Capace di scatenare reazioni forti, politicamente orientato, e spesso disumanizzante nei confronti del lato opposto del conflitto. La guerra, come tutto, diventa contenuto, capace di essere rappresentato, reso un meme, persino monetizzato, nelle giuste circostanze.

L’inquietante caso dell’IDF e degli influencer di guerra

Sono le forze dell’Israeli Defence Force a usare in maniera massiccia gli strumenti digitali per promuovere le loro azioni. Si tratta di un’adozione particolarmente emblematica della rappresentazione delle forze avversarie da parte della propaganda di governo: avendo in più occasioni disumanizzato i combattenti palestinesi e le forze di Hamas, il contenuto proposto dalle forze dell’IDF mostra uomini intenti a creare How-to-videos su come far esplodere una moschea, mentre ridono vandalizzando negozi con canzoni in sottofondo, a deridere l’ignoranza del popolo palestinese dovuta anche al fatto che hanno appena raso al suolo una scuola a Gaza,

@callmegiorgie “For all those asking why there is no education in Gaza. We bombed them. That sucks. That’s how you will never become engineers anymore” Israeli soldier Yishai Shalev standing afront Al-Azhar university. #Palestine #israel #isreal #gaza #westbank #freepalestine ♬ original sound – George Gardiakos



La questione dell’educazione del popolo palestinese sembra essere, fra le altre cose, uno dei punti su cui più i membri dell’IDF scherzano nei loro video. In una serie di questi, soldati israeliani si filmano mentre scrivono alla lavagna in classi vuote di scuole bombardate, o scherzano sulle rovine dell’Università. “questa era l’università di Gaza” dice un soldato filmandone le macerie, “abbiamo fatto un favore ai palestinesi, l’abbiamo resa un’università aperta”.

Un comportamento che quando osservato dal pubblico occidentale ci lascia estraniati, ma che trova senso nel momento in cui si considera lo status della propaganda in medio oriente, per cui alle forze israeliane è naturale il sentimento di stare lottando per l’inequivocabile “giusto”, dove il popolo palestinese è ritratto come meno che umano, spesso anzi bestiale. La propaganda israeliana traballa su questo versante, a volte restringendo lo stato di non-umano alla singola organizzazione di Hamas. Ma, come dimostra il video mostrato da Tembeka Ngcukaitobi alla Corte di Giustizia Internazionale e raffigurante soldati dell’IDF mentre ballano e cantano un motto che termina e in “non esistono civili non coinvolti”, non sembrano esserci troppe differenze.

I rischi della contenutizzazione della guerra

Content è ormai fra i termini cardini dei social media. L’argomento, il trend, l’hashtag virale, tutto è possibilmente contenuto, soggetto a discussione, all’apertura del pubblico ad eventi e informazioni, a essere monetizzato e divenire oggetto di polarizzazione. Ma soprattutto, destinato a scomparire.

La natura effimera del contenuto digitale lo rende infatti soggetto a essere velocemente rimpiazzato con altro, a diventare uno dei tanti argomenti presi, innalzati, e poi abbandonati. Lo stesso vale per il “war content”, come è dimostrato dall’adozione della causa palestinese da parte degli influencer occidentali, e a ormai cinque mesi dall’inizio del conflitto, decisamente ridotto in presenza quando non del tutto abbandonato perché non più trending. 

Il rischio della scomparsa di un discorso sano intorno alla guerra rende problematica la prospettiva per cui restano solo le emittenti giornalistiche o le fazioni direttamente coinvolte a discuterne, rischiando un disinteresse popolare intorno alla questione. Quando eventi di importanza storica si uniformano a tutti gli altri, perdono il valore umano a essi intrinseco.

Ma il rischio peggiore è un altro, quello di normalizzare le scene rappresentate in questo articolo, di permettere che in nome di cause proclamate “giuste” ci si possa sentire in diritto di condividere contenuti dove la morte e la devastazione diventano lo sfondo per sketch comici e meme da postare sui social media.

Il rischio è di rendere la guerra una cosa da ridere.

Roberto Pedotti

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