Smart working: la Germania vuole che sia un diritto dei lavoratori. L’Italia, al solito, resta indietro

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Ancora una volta, la Germania è lo stato più lungimirante d’Europa, l’unica a voler rendere lo smart working un diritto.

In Italia, una normativa che definisce il “lavoro intelligente”, o smart working, appunto, è entrata in vigore il 14 giugno 2017 (Legge n. 81/2017). Tale legge,

“pone l’accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo individuale e sull’utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone). Ai lavoratori agili viene garantita la parità di trattamento – economico e normativo – rispetto ai loro colleghi che eseguono la prestazione con modalità ordinarie.”

Ministero del Lavoro e delle politiche sociali. 

Dunque, è solo da qualche anno che il Ministero del lavoro prevede la possibilità che i dipendenti di qualsiasi azienda usufruiscano del lavoro agile. Durante il Covid-19, una delle misure preventive più popolari e intelligenti emanate del Governo ha incluso proprio lo Smart Working.




Molti datori di lavoro si sono trovati costretti a sperimentare una nuova modalità di fare impresa che, a dirla tutta, per alcuni settori ha rappresentato un fattore di crescita produttiva. Ovviamente, esistono alcune realtà che non possono usufruire dello smart working, per le connotazioni stesse del lavoro. Ad esempio, in un’azienda biomedica che si occupa di produrre filtri per dialitici, gli ingegneri che curano il process e il manufacturing non possono assentarsi dal posto di lavoro.

In Italia, tuttavia, il lavoro intelligente attuato per la pandemia non è proprio una versione definitiva, ma una forzatura dovuta alle circostanze. Lo Smart Working dovrebbe essere una “filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli  strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione dei risultati“, come lo definisce l’Osservatorio del Politecnico di Milano.

Gestione dello smart working in Italia

L’Inail ha pubblicato i dati delle denunce da Covid-19 sul lavoro, aggiornati al 30 settembre 2020. Il Report sottolinea che, in complesso, in tutta Italia, le denunce di infortunio sul lavoro a seguito di Covid-19, sono state 54.128 (il 15% delle denunce di infortunio pervenute da inizio anno e il 17,2% dei contagiati nazionali totali comunicati dall’ISS alla stessa data). Inoltre:

[…] Rispetto al monitoraggio effettuato alla data del 31 agosto (52.209 denunce) i casi in più sono 1.919, di cui 1.127 riferiti a contagi nel mese di settembre, gli altri 792 sono imputabili ai mesi precedenti (in particolare al mese di agosto; il consolidamento dei dati permette di acquisire informazioni non disponibili nei mesi precedenti);

-Report Inail.

Dunque, i casi sono aumentati nel mese di agosto e settembre, nonostante l’invito allo smart working. Tra i settori più colpiti, il podio va assegnato, ovviamente, ai tecnici della salute. Tuttavia, “con la ripresa delle attività, è cresciuta l’incidenza di altre professioni sul totale delle infezioni da Covid-19 denunciate all’Inail. È il caso, per esempio, degli esercenti dei servizi di alloggio e ristorazione (passati dallo 0,6% del primo periodo al 3,5% di giugno-settembre), degli addetti ai servizi di sicurezza, vigilanza e custodia (dallo 0,5% all’1,4%) o degli artigiani e operai specializzati (dallo 0,2% al 4,8%).”




Insomma, i contagi ci sono e aumentano proprio tra coloro che non possono permettersi di lavorare in smart working. Non è un caso che il settore scuola sia stata (e sia tutt’ora) nel mirino. La didattica a distanza è complessa, ma le lezioni in presenza hanno fatto aumentare i contagi tra personale docente, ausiliario e alunni.

Il problema principale, in Italia, è che lo smart working, nonostante il boom registrato dall’Istat negli ultimi mesi (secondo il quale anche le piccole e medie imprese hanno accettato il lavoro da remoto), non è ancora considerato un diritto, ma (oltre che una spiacevole costrizione) una possibilità. 

Partendo proprio dai dati positivi (e negativi) ricevuti, il governo italiano avrebbe anche potuto modificare la legislazione sul lavoro agile (datata 2017), aggiornarla e fare tesoro della situazione vissuta.

Lo smart working in Germania

Come spesso accade, la Germania è uno degli stati europei più lungimiranti. Anche il governo tedesco ha dovuto affrontare la pandemia e, come in Italia, anche la Merkel ha optato per incentivare lo smart working. Senza scendere nel merito delle misure preventive tedesche, va sottolineata la volontà (propria della Germania) di non perdere alcun progresso fatto durante la lotta al Covid-19.

Infatti, il ministro del lavoro Hebertus Heil, in questi giorni, sta lavorando su una nuova proposta di legge per rendere il lavoro agile un vero e proprio diritto (non una mera eventualità) che garantirebbe ai lavoratori almeno 24 giorni di smart working all’anno. Dunque, la differenza fondamentale con l’Italia è semplice: in Germania, anche una volta finita l’emergenza, gli impiegati, laddove possibile, avranno diritto a lavorare da remoto.

Heil, infatti, intende stilare una proposta che autorizzi i dipendenti tedeschi a richiedere legalmente il remote working. Inoltre, intende soppesare e modificare le interazione tra lavoro e famiglia: nel caso in cui entrambi i genitori abbiamo la possibilità di ricorrere allo smart working, vuole che sia riconosciuto a ognuno di loro di ricorrere al lavoro da remoto una volta a settimana, in maniera alternata.

La nuova legge è ancora in fase di studio, ma il governo e i tedeschi sembrano esserne entusiasti. Ancora una volta, la Germania si qualifica al primo posto nell’offerta di servizi ai cittadini. Perché in Italia non si punta allo stesso risultato, pur avendone tutte le possibilità?

Antonia Galise

 

 

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