Sindrome del prigioniero: ecco perchè dopo la quarantena non vogliamo ancora uscire

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Il 4 maggio non è stato di certo – meglio ribadirlo – un via libera. Ma per molti ha segnato comunque la data della svolta, del ritorno ad una libertà almeno parziale. C’è chi ha aspettato l’inizio della fase 2 con impazienza. E chi, invece, ne ha avuto quasi timore. Come chi soffre della cosiddetta sindrome del prigioniero.

La nostra vita è sempre stata fatta di piccole cose, che in realtà sono le più grandi. Ma non ce ne siamo mai accorti. Almeno fino al 9 marzo 2020, giorno dell’inizio del lockdown e per molti, forse, di una nuova vita.
Un aperitivo con le amiche, una cena a lume di candela con il proprio partner, una passeggiata mano nella mano, un abbraccio, un caffè al bar prima di andare a lavoro, proprio quando sono diventati vaghi ricordi, si sono trasformati per i nostri occhi in scenari meravigliosi.

E adesso che siamo finalmente approdati alla fase 2 e che – non tutte, ma alcune – di queste cose sono ad un passo da noi, ci sembrano tanto belle quanto spaventose.

Non c’è nulla di strano in questo. Dopo un periodo di cambiamento può scattare la succitata sindrome del prigioniero (nota anche come sindrome della capanna).

Come si manifesta?

Una persona costretta all’isolamento per molto tempo, sviluppa una sorta di timore nei confronti di quello che c’è fuori, tanto da evitare – anche quando poi ne ha la possibilità – contatti con l’esterno. Non a caso, la sindrome del prigioniero riguarda molto spesso persone uscite dal carcere, oppure dall’ospedale dopo un lungo ricovero.

In sostanza, quella routine – nuova e all’inizio indesiderata – da nemica diventa amica e ci fa sentire protetti, tanto da avere paura di allontanarcene.

Perché non vogliamo uscire?

I motivi possono essere svariati.

Magari potremmo esserci adattati al cambiamento.

Abbiamo avuto tempo da dedicare a quegli hobby per cui prima riuscivamo a ritagliarci solo rari momenti. Da condividere con la nostra famiglia, da cui il lavoro, gli impegni quotidiani, ci tenevano troppo spesso lontani. Ma, soprattutto, abbiamo potuto finalmente coltivare il rapporto con noi stessi.

Del resto, l’isolamento può non essere sempre drammatico. Come sosteneva Shopenhauer:

“La vera e profonda pace del cuore e la perfetta tranquillità d’animo, che costituiscono subito dopo la salute il più grande bene terreno, si troveranno soltanto nella solitudine e come stato d’animo duraturo solo nel più profondo isolamento”.

Sia chiaro, questo discorso è applicabile solo quando le possibilità economiche, di spazio, ecc. ecc. lo consentono. In quest’ultimo caso ogni discorso lascia il tempo che trova per ovvie ragioni.

Ma quando le condizioni lo permettono, l’isolamento può divenire un momento di riflessione, di consapevolezza, di introspezione. Ovviamente quello a cui si riferisce il filosofo non è forzato, bensì volontario. Ma alcune persone negli ultimi mesi ne hanno saputo cogliere comunque il lato positivo. Hanno sfruttato questa occasione per conoscersi, capirsi. Per scavare ed osservare la parte più profonda del loro essere. E magari molti, proprio comprendendo a fondo i loro disequilibri, hanno trovato il tanto ambito equilibrio interiore. Qualcuno adesso potrebbe avere paura che, venuto a contatto con il mondo esterno, questo possa spezzarsi, che possa non adattarsi al caos che c’è fuori dalla porta di casa. Qualcun altro magari semplicemente – a causa di tutto lo stress che la sua mente ha subito – ha riconsiderato le sue priorità e le sue esigenze ed oggi non vuole più le stesse cose di prima.

Oppure la nostra abitazione potrebbe essere diventata un vero e proprio rifugio per noi.

In questi due mesi abbiamo sostituito gli aperitivi con le videochiamate, le giornate a lavoro con lo smartworking. Ci siamo resi conto che le mura di casa nostra possono racchiudere un mondo. Che quello che – per molti – era solo un posto in cui dormire e nutrirsi, in realtà può diventare all’occorrenza bar, ristorante, ufficio, scuola, università.

La nostra dimora è l’unico luogo in cui ci siamo sentiti davvero al sicuro nell’ultimo periodo. E adesso non riusciamo più a rinunciarci.

E ancora. Forse temiamo di uscire e non trovare il mondo come l’abbiamo lasciato.

La vita non si è fermata nel frattempo. Non ci ha aspettati. Le strade si sono svuotate, i negozi hanno chiuso, i bar ed i ristoranti – quelli che hanno riaperto, si intende – non offrono più il servizio “standard” a cui siamo abituati. In molte città ci sono ancora vie completamente deserte. E poi le persone girano con le mascherine, non si vedono più i sorrisi dei passanti. La nuova realtà potrebbe non piacerci, destabilizzarci, disorientarci.

Infine, un’altra causa può essere il timore.

Ci dicono che il virus non si combatte con la paura. Intanto però questa c’è ed è viva e forte. Temiamo ancora di poter essere contagiati, di mettere in pericolo noi stessi e le persone a noi care.

La buona notizia è che la sindrome del prigioniero dovrebbe costituire una fase temporanea della nostra vita, come successe a molti dopo l’11 settembre. Probabilmente quando questa baraonda mediatica finirà, si smetterà di parlare di pandemia a tutte le ore del giorno e della notte, i contagi rasenteranno lo zero, le persone si sentiranno più tranquille e la loro voglia di ricominciare a godersi il mondo aumenterà.

Ma se qualcuno, dopo tutto questo periodo, troverà il modo e la voglia di cambiare qualcosa della sua vita e reputerà questo mutamento positivo, che lo faccia pure. Ognuno deve decidere come vivere.

Anna Gaia Cavallo

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