Ai filosofi siamo soliti pensare immaginando il Pensatore di Rodin, oppure le celebri figure ritratte da Raffaello nella Scuola di Atene. Secondo lo stereotipo, il filosofo medita seduto alla scrivania, oppure discorre. Non corre. Certamente non tira di boxe. È impegnato in un’attività astratta che tale deve rimanere. O forse no. Secondo il filosofo Simone Regazzoni, infatti, la filosofia in realtà ha moltissimo a che fare con il corpo. Tanto che la riflessione autenticamente filosofica potrebbe essere descritta come un intenso, sudatissimo, allenamento integrale di sé.
Tradizionalmente, alla filosofia si pensa come a un’attività astratta, disincarnata. Ci si siede, ci si immerge nello studio, nella meditazione o nel dialogo e ci si dimentica del corpo, quando non lo si osteggia. Eppure, questo è solo un modo – peraltro abbastanza riduttivo – di pensare la filosofia. Facendo dialogare il pensiero filosofico delle origini con i recenti paradigmi alternativi della corporeità, Simone Regazzoni ha provato a proporre una lettura diversa. Suggerendo, nel libro La palestra di Platone (Ponte alle Grazie, 2020), di interpretare invece la filosofia come allenamento integrale di sé. Ossia come una disciplina capace di ingaggiare globalmente il sistema mente-corpo allo scopo di imparare a pensare e vivere bene. Quali sono le sfide, le potenzialità e le poste in gioco di una simile prospettiva? Dialogando con il filosofo, abbiamo avuto modo di scoprirlo.
Nel tuo ultimo libro, tu hai esplorato il rapporto tra filosofia e corporeità attraverso il concetto di “allenamento”. Che cosa significa ripensare la filosofia come un “allenamento”?
Simone Regazzoni:
«Nel Novecento, numerose discipline – ad esempio le neuroscienze – hanno evidenziato il legame inscindibile tra corpo e pensiero. Ciò contrasta con la tradizione che fa capo a Cartesio, che stabilisce una netta separazione tra mente e corpo, res cogitans e res extensa. Filosofi come Merleau-Ponty, Derrida e soprattutto Foucault hanno lavorato per sanare questa frattura, o quantomeno per disegnare un paradigma alternativo. Essendo ben consapevoli, peraltro, delle enormi ricadute etiche e politiche del considerare il pensiero come incarnato.
Tale sforzo è in continuità con la profonda consapevolezza del legame inscindibile di mente e corpo che caratterizzava la filosofia delle origini. Quella che presenta Platone come il filosofo delle Idee che vedeva nel corpo una minaccia per l’anima e per il pensiero, infatti, è una semplificazione. Nella mia indagine ho provato a offrire una lettura diversa, incentrata sulla nozione di “askesis“ che si ritrova nelle opere del filosofo ateniese. Credo sia importante non farsi ingannare dal termine con cui si traduce solitamente askesis, cioè “allenamento“. Questa parola, infatti, ci rimanda all’immaginario della palestra contemporanea, in cui spesso si lavora più sull’immagine che sulla consapevolezza del corpo e delle sue potenzialità.
L’allenamento per gli antichi era, invece, una pratica di elevazione di sé. Proprio Platone, per esempio, utilizza la bellissima formula “sforzarsi di diventare migliori il più possibile“. Allenare il corpo attraverso l’esercizio fisico serviva a sviluppare alcune capacità, nonché virtù etiche come il coraggio. Socrate, capace di resistere, scalzo, sul ghiaccio durante una battaglia, è l’emblema perfetto di un coraggio che sorge dall’allenamento. Non a caso è il modello cui tende l’insegnamento platonico, impegnando il corpo e l’intelletto degli allievi. La filosofia, voglio dire, non è nata come discorso, ma come askesis, dentro lo spazio storicamente determinato di un ginnasio a nord-ovest di Atene.»
La filosofia, dunque, da questo punto di vista si presenta come un continuo sforzo di miglioramento e di superamento di sé. Come nel saggio tu fai presente, uno degli elementi fondamentali di questo processo è il combattimento, la lotta. La palestra in cui Platone discute e si allena con gli allievi è un luogo dove, soprattutto, si lotta. Ma, là dove la filosofia e l’elevazione di sé passano soprattutto per il combattimento, alla violenza che ruolo spetta?
Simone Regazzoni:
«Anzitutto, occorre una precisazione. L’idea che dal pensiero e dal dialogo vada eliminata ogni forma di violenza è piuttosto recente. In realtà, ciascun confronto è sempre permeato da rapporti di forza che devono essere ben contemperati per non sfociare nella vessazione. La nostra società cerca piuttosto di rimuovere questo elemento, di passarlo sotto silenzio. Per gli antichi Greci, invece, che erano una società guerriera, era normale considerare la conflittualità come dimensione onnipresente nella vita. Non era inammissibile che in un confronto fosse presente una certa violenza. Disonorevole era, piuttosto, l’esplosione incontrollata della violenza, così come la scorrettezza, l’incapacità di dominare adeguatamente un certo spazio simbolico. L’askesis serviva per fare – tanto nel confronto fisico quanto in quello intellettuale – un uso corretto della forza. Servendosene come kratos, il potere capace di dare frutti che ritroviamo anche nel termine demo-crazia, e non come bia, cioè la violenza cieca e sterile.
Riconosciuta la violenza come componente ineliminabile dell’umano e dell’universo, dunque, la corretta formazione dell’uomo e del cittadino è quella che insegna a gestirla. E che permette – forse proprio in questo consiste la grandezza del pensiero antico – di vederla e comprenderla senza soccomberle. Nella lotta, così come nell’attività riflessiva, si misurano le capacità tecniche del combattente, la sua virtù, la sua resistenza. Il suo essere pronto, insomma, a misurarsi con un cosmo che non è irenico, pacificato. Nonché con una interiorità fatta anche di elementi di disordine, di desiderio, di passionalità. Frutto dell’allenamento che è la filosofia è anche il riuscire a convivere con questi elementi senza soffocarli e senza rimuoverli artificiosamente dallo spazio della totalità.»
L’allenamento integrale di sé, dunque, come pratica che plasma non solo corpi atletici, ma individui eticamente preparati. Nonché, se prestiamo fede a quanto Platone afferma, ad esempio nelle Leggi, buoni cittadini. Secondo te, questo potrebbe essere applicabile anche oggi, in qualche misura?
Simone Regazzoni:
«Credo che, pur con tutti i suoi limiti, la Grecia antica resti un modello straordinario, una vera e propria palestra di democrazia. Ancora oltre si spingeva, del resto, la palestra platonica, ammettendo ad allenarsi anche donne e schiavi, che erano esclusi dalla cittadinanza attiva. Personalmente, ritengo quelle esperienze profondamente istruttive per noi oggi in particolar modo per quanto riguarda la gestione dell’elemento di conflittualità ineliminabile dalla dinamica democratica. Noi, come accennavo prima, tendiamo a pensare il conflitto come degenerazione della democrazia, ma così non è. Il conflitto è semplicemente il prodotto delle tensioni tra interessi e visioni del mondo che, in un contesto plurale, possono divergere.
Storicamente, alcuni gruppi si sono trovati a dover lottare per vedere riconosciuti i propri diritti contro chi difendeva un certo ordine del mondo. Sta succedendo anche oggi. Prima di avere forza di legge, il riconoscimento è frutto di una battaglia. Non a caso, infatti, vediamo che ogni battaglia seria per i diritti mette in campo molteplici forze: quella persuasiva, quella linguistica, quella performativa… Esse innescano reazioni di difesa e dispiegamenti di forze anche nello schieramento opposto. Essere allenati alla gestione della conflittualità significa avere il coraggio di non cedere all’ingiustizia, ma al tempo stesso la capacità di non cadere in logiche perverse. Come quella per cui chi sostiene una posizione diversa non è un avversario da riconoscere e con cui misurarsi, ma un nemico da annientare.»
Mi piacerebbe approfondire il modo di vivere il corpo. Nel tuo libro hai analizzato le esperienze e le riflessioni di atleti leggendari come Bruce Lee e Mike Tyson. Nei loro resoconti, come in quelli di tutti gli atleti, figurano spesso il dolore e la fatica come elementi inscindibili dal “sentirsi bene”. Il corpo atletico è un corpo reattivo e sano; spesso, però, è anche percorso da un dolore lancinante per la fatica o per gli infortuni. Se nel rapporto con il nostro corpo ci poniamo nella prospettiva dell’askesis, che ne è del piacere?
Simone Regazzoni:
«Anzitutto, bisogna capire – qui l’allenamento fisico costituisce un’esperienza fondamentale – che esistono tipi diversi di piacere. Nella nostra società, quando si pensa al piacere in genere si pensa a quello del corpo rilassato, in quiete. Un piacere di questo tipo ha luogo in assenza di dolore, di tensione. Non è sbagliato, ma non è l’unico tipo di piacere possibile. Esistono anche piaceri che si sostanziano di fatica e sudore. Come una performance d’eccellenza, la vittoria di un combattimento o anche solo riuscire a svolgere esercizi particolarmente impegnativi superando i propri limiti. Può essere il piacere dell’atleta professionista, ma anche del dilettante che esce dalla propria comfort zone per provare a diventare altro. Si tratta di quella filoponia, cioè l’amore per la fatica, che per Platone era una condizione necessaria alla pratica filosofica. Senza fatica, non c’è trasformazione di sé possibile, fisica o mentale che sia.
Ciò significa, allora, che occorre portare avanti una visione rigidamente agonistica della vita? Naturalmente no. Bisognerebbe, però, provare a uscire da certi schemi mentali largamente diffusi. In particolare, andrebbe rivista la visione anestetizzante del piacere come mera assenza di dolore e soddisfacimento, meccanico e immediato, dei desideri. La nostra società è quella della protezione quasi ossessiva dal dolore e delle scorciatoie. Basti pensare ai tanti prodotti pubblicizzati per il dimagrimento e per la salute, che promettono miracoli senza che sia necessario alzarsi dal divano. Rimuovere la fatica, che può rendere più complessa, articolata e appagante la nostra vita, rischia di farci appiattire come soggetti. Raccogliere la sfida di pensare la cura di sé come askesis ha anche a che fare con la possibilità di sperimentare modi di soggettivazione diversi. Arrivando a vedere dolore e fatica come vie d’accesso e di trasformazione dei soggetti incarnati che noi siamo.»
Assumendo questo punto di vista, però, non si rischia di cadere nell’abilismo e nel maschilismo? Che posto possono trovare il corpo del disabile e quello della donna che non interpreta in questa chiave la cura di sé in questa prospettiva?
Simone Regazzoni:
«Sì, esiste questo rischio, però vi si cade soprattutto se si porta avanti una visione rigida e normativa del modello dell’atleta, del corpo, dello sport. In realtà, lo sport costituisce uno spazio e un vettore eccezionale di ripensamento dei corpi e dei generi. Basti pensare, ad esempio, a come certi tipi di allenamento modificano i tratti di genere e li ricontestualizzano. Oppure, al fatto che alle Olimpiadi di Tokyo gareggerà nel sollevamento pesi per la prima volta un’atleta transgender. Lo sport porta all’attenzione, insomma, dentro lo spazio pubblico, corpi nuovi, conformi e non. E nel fare questo rivela come posture, movenze, gesti e gerarchie relativi al corpo altro non sono che un costrutto culturale.
Spesso, l’invenzione di nuove discipline e nuove modalità nello sport si rivela rivoluzionaria. Cambiando il contesto, un corpo che poteva apparire non abile o non prestante finisce per risultare, invece, superiore. Non si tratta di un riconoscimento paternalistico, ma di una continua esplorazione di ciò che un corpo sia e possa. Per riuscire a rendersene conto, però, bisogna riuscire a superare una concezione superficialmente estetica e pensare il corpo come soggettività incarnata in divenire.»
Valeria Meazza