Esatto, “dare pieghe” e non “piegare”. Qui non parliamo di origami, arte di suo ricca di storia e di fascino, dunque non è un vero e proprio piegare e manipolare la carta fino a dare una forma nuova. Quello che Simon Schubert ci offre è qualcosa di altrettanto straordinario e assolutamente incredibile da vedere.
Simon Schubert (Colonia, 1976) ha studiato scultura alla Fine Academy Of Art di Düsseldorf, ma le sue sculture non sono proprio quello che ci si potrebbe aspettare: non conquistano le tre dimensioni, eppure hanno immenso volume; non hanno colore, eppure sono intensamente evocative.
Non le puoi toccare, eppure hanno una fortissima presenza avvolgente che quasi ti costringe ad entrarci dentro.
Simon Schubert riesce a disegnare con una precisione prospettica impressionante e un realismo fotografico sconvolgente delle ambientazioni con il solo utilizzo della piega, decisa ma leggera, su un foglio di carta. Vedere per credere!
Immaginate la delicatezza e la fragilità di una sua opera: un foglio di carta, niente di più che un foglio di carta, lo stesso che utilizziamo per scrivere, per scarabocchiare, per disegnare; lo stesso che probabilmente strappiamo per incartarci qualcosa. Un solo foglio di carta.
Simon Schubert riesce a vedere qualcosa che va oltre, evidentemente, ovvero la sua migliore tela su cui lavorare. Rappresentazioni di stanze, alcune molto vuote per dare spazio all’occhio e lasciarlo a perdersi nella prospettiva, altre piene di oggetti per permetterci di vedere con quanta precisione riesce, con poche linee di pressione sul foglio, a dare volume ad ogni oggetto ritratto.
Tutti fogli bianchi, senza un filo di colore. Ovviamente il colore, qualunque esso sia e di qualsiasi pastosità si tratti, lascia il suo peso e dunque una sua deformazione sul foglio, eventualità che nel lavoro perfetto di Simon Schubert non è il caso di considerare.
Nonostante questa assenza di colore, però, queste delicate opere di piega sono molto suggestive. Difatti il biancore dona un ché di evanescente, di sospeso, forse a tratti inquietante, come se fossero tutte foto di case fantasma di cui rimane una fotografia sfocata.
Il realismo delle forme e della profondità dà così tanto respiro che sembra si tratti di tante piccole finestre aperte sugli edifici. Si ha quasi l’impressione di essere lì dentro e, dato lo spazio e il vuoto circostante, di poter sentire l’eco della propria voce se solo si provasse a parlare.
Verrebbe da dire che Simon Schubert, con queste opere, abbia dato nuova definizione a quello che potrebbe essere il Rumore Bianco: non tanto quello senza ampiezza di frequenze, quanto quello grave e avvolgente dei luoghi immensi in cui ci si può perdere, come le cattedrali o le case abbandonate. Quel rumore che in realtà è silenzio, ma inusuale, assordante e per questo il candore che accoglie gli occhi è lo stesso che avvolge anche le orecchie in un viaggio sensitivo solo di sensazioni.
Un miscuglio di colori nella loro assenza e una sinfonia di suoni nella loro mancanza. Una continuità, quindi, di ciò che c’è anche quando non si vede.
È davvero possibile creare tutto questo, tramite un foglio di carta che non è né manipolato né colorato? Schubert sembra esserci proprio riuscito.
Quanti modi di creare e vedere il creato esistono, dunque?
Gea Di Bella