Il volo di Silvia Romano non era ancora atterrato e già gli odiatori seriali dell’informazione e della rete si davano appuntamento per il banchetto. Un orrido pasto al quale, in fondo, si preparavano nei ritagli di tempo solo da 18 mesi. La portata principale? Naturalmente, l’ammontare del riscatto per liberare la giovane cooperante italiana. Anche se la cifra resta sconosciuta (si parla di 4 milioni di euro), il parere degli avvoltoi è unanime: “Silvia Romano ci costa cara”. A pochi giorni di distanza, la voce dell’Italia che odia per professione e per hobby continua a farsi sentire forte e chiara. Smontando il suo discorso ed esaminandolo da vicino, il motivo per cui urge contrastarlo risulta ancora più evidente.
“Silvia Romano ci costa cara”. Questo punto è al cuore dei discorsi di chi, in questi giorni, sputa veleno sulla liberazione della cooperante rapita 18 mesi fa in Kenya. Possiamo fingere che il problema sia la lealtà verso la Patria. Il finanziamento del terrorismo. O la scelta di convertirsi a una religione problematica dal punto di vista dei diritti delle donne e dell’umanità. Ma la ragione principale per cui moltissimi – troppi! – Italiani, anziché gioire della salvezza di una connazionale, se ne rammaricano con stizza, è banalissima. È una questione di soldi. E anche – forse, soprattutto – di una grammatica del pensiero collettivo che da anni una certa parte del discorso pubblico allena alla miseria etica e sociale. Travestendo, peraltro, le proprie meschinità da realismo e buonsenso. Per rendersene conto, basta scavare un po’ in questa manciata di parole avvelenate che fa da leitmotiv alla polemica in corso.
Iniziamo dal verbo: che significa quel “costa”?
Il fumettista Don Alemanno (Alessandro Mereu) domenica mattina pubblicava nella popolare serie satirica Pillole di Jenus una vignetta che riassume perfettamente la polemica su Silvia. La ragazza, disorientata, siede su una bilancia mentre due uomini quasi del tutto fuori campo la pesano e ne contrattano il prezzo. Uno, presumibilmente, è un terrorista. L’altro non appartiene né al Governo né ai servizi segreti. È l’Italiano medio peggiore, che pressa il venditore per sapere, insomma, questa ragazza quanto costa. E che, probabilmente, nell’istante successivo – quello che resta fuori dall’immagine – inizia a contrattare per avere uno sconto. Il fumettista coglie un punto inquietante: tanto per il terrorista quanto per il suo interlocutore Silvia Romano è una merce qualsiasi.
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In quanto merce, si può dire di lei “costa”: commisurarne, cioè, il prezzo al valore.
Ma Silvia quanto vale? Per molti connazionali, poco. Del resto, è una donna: se fosse stata giudiziosa (leggi: consapevole del proprio ruolo), sarebbe rimasta a casa. È una cooperante: il suo lavoro, se pagato, non produceva ricchezza. Quantomeno, non quella valutabile in termini di fatturato, la sola che conta. E, peggio del peggio, si è convertita all’Islam. Fatto che, con buona pace degli articoli 8, 19 e 20 della nostra Costituzione, basterebbe secondo tanti a farle perdere la cittadinanza italiana. Anzi, secondo l’illuminato parere di Vittorio Sgarbi ce ne sarebbe d’avanzo per farle perdere i diritti civili. E perché non quelli umani? Questa gloriosa ipotesi ha già un apripista:il consigliere comunale di Asolo (TV) Nico Basso, che propone direttamente di impiccare Silvia. Perché, si sa, essere musulmani equivale necessariamente a essere dei terroristi. Una minaccia per la collettività. Pagare per una così, dunque, è come minimo un pessimo affare.
Non a caso, perciò, una domanda ritorna in questi giorni, sempre più inviperita: «Perché devo essere io a rimetterci per lei?».
Non dovrebbe essere necessario precisare che uno Stato degno di questo nome non abbandona i propri cittadini – o almeno, ci prova. E che i costi sono sostenuti dalla collettività in favore di tutti. Eppure, c’è chi ribatte:
Eh ma lei se l’è cercata.
Di solito, chi dice questo sostiene anche che i migranti vanno “aiutati a casa loro”. Ma lasciamo pure perdere questo paradosso. A costoro bisognerebbe chiedere se non abbiano mai avuto comportamenti contrari alla propria salute o sicurezza. Perché, almeno per ora, lo Stato garantisce fra l’altro l’assistenza sanitaria anche a chi fuma, beve o ha altre dipendenze. E a chi fa vita troppo sedentaria o ha un’alimentazione scorretta. È una china molto scivolosa da percorrere il sostenere che lo Stato debba esserci solo per chi se lo merita. E se questo criterio escludesse per primo proprio chi lo caldeggia?
In ogni caso, comunque, quanto costa di preciso la liberazione della ragazza alla collettività? Ammesso che il riscatto ammontasse a 4 milioni, sarebbero 6 centesimi a cittadino. Anche considerando le spese per le operazioni di intelligence e trasferimento, non si arriva a un euro. Ecco quanto Silvia Romano ci costa cara
È per meno di un euro, in altre parole, che tanti connazionali si rammaricano che la ragazza non sia stata lasciata dov’era. Che sezionano ogni suo gesto e dichiarazione con un bisturi avvelenato. E, se non arrivano a chiedere la sua pelle come risarcimento, quantomeno sono pronti ad augurare a lei e alla sua famiglia il peggio. Fomentati da saprofagi come Vittorio Feltri, che nell’editoriale di ieri su Libero scriveva:
Il governo, specialista nell’arte di indebitarsi, non è in grado di fornire due soldi alle aziende italiane in crisi causa pandemia, poi sgancia milioni per consentire a una pulzella di riabbracciare i congiunti, incapaci a suo tempo di trattenerla in famiglia evitandole una disavventura atroce […]. È assurdo inseguire, spendendo cifre folli, ragazze incantate dall’islam. Ovvio, lo facciamo lo stesso perché abbiamo il cuore tenero benché il nostro portafogli sia vuoto.
Liberare e riportare a casa Silvia Romano, suggerisce l’editoriale, è una spesa inutile, che il nostro Paese – già in crisi – non può permettersi. Salvare questa ragazza comporta sottrarre risorse preziose agli Italiani e alle aziende in difficoltà.
Posta in questi termini la questione, è facile capire perché contro Silvia Romano si stia scatenando il gioco al massacro. In base al discorso di Feltri e accoliti, infatti, l’alternativa è semplice: bisogna scegliere tra la solidarietà che lega i cittadini e la propria sopravvivenza. Silvia Romano ci costa cara perché il fatto che l’Italia spenda per lei compromette il nostro già precario futuro, contribuendo a condannare famiglie e imprese. Ecco la logica della miseria all’opera. Essa ci spinge a pensare che, a causa della crisi, un’imminente miseria ci priverà di ogni dignità sociale e morale. E che, dunque, occorre compiere scelte drastiche adesso, ritagliando sempre più stretti i margini di ciò che la collettività può e non può permettersi. E ammettendo che certe vite, vagliate le scelte di chi le vive, valgano meno. Così, mentre la solidarietà diventa un lusso, moltissimi italiani stanno diventando, anche senza essere indigenti, miserabili.
Non è vero che Silvia Romano ci costa cara. Non più delle malversazioni di ieri e di oggi, delle opere inutili, delle politiche poco lungimiranti e asservite agli interessi privati o di partito. Silvia Romano, semplicemente, è il soggetto ideale di un discorso pubblico che ha rinunciato a chiedere alle Istituzioni una maggiore trasparenza e responsabilità. E che, dunque, ha bisogno un nemico ben individuabile al quale imputare le colpe che non ha la capacità autocritica di imputarsi.
È il soggetto ideale perché è una donna. Il suo corpo e la sua vita, pertanto, possono essere impunemente frugati e rivoltati con lo sguardo in cerca di una colpa. Come era già successo a Greta Ramelli e a Vanessa Marzullo, o a Simona Parri e a Simona Torretta. Come non succederebbe mai a Sergio Zanotti, Alessandro Sandrini e Luca Tacchetto, tutti recuperati negli ultimi dodici mesi dall’Italia pagando un riscatto. Uomini. E perciò risparmiati dalle accuse, dalle minacce, dalle fake news più infami.
Ed è il soggetto ideale anche perché si è convertita – quali che siano le ragioni – all’Islam e ha osato tornare in Italia indossando un jilbab. Facendo la gioia della peggiore stampa islamofoba, che ha trasformato un abito tradizionale da passeggio nella “divisa del nemico”. Pienamente creduta da un Paese che ha tutt’altro che risolto i propri problemi di razzismo e accettazione della libertà di culto.
Ma, soprattutto, Silvia Romano è il soggetto ideale perché è più indifesa. La sua voce può essere distorta, le sue parole piegate al significato più congeniale a un discorso che commetterebbe ogni nefandezza pur di prevalere. Un discorso che si fa del diffondere e fomentare l’odio e la violenza un punto d’onore.
E che lo fa con straordinaria efficacia, a quanto pare. In questo momento, infatti, la Prefettura di Milano sta valutando se mettere Silvia Romano sotto scorta a causa dell’entità delle minacce ricevute. Questo è il frutto vile germogliato in un discorso pubblico che non fa che ripetere, ancora e ancora, che Silvia Romano ci costa cara. Che sarebbe stato meglio lasciarla dov’era, visto che ci stava così bene. Dato che era d’accordo coi rapitori. Poiché ha sottratto risorse alle famiglie e alle aziende. E quindi merita di morire.
A questo discorso va posto un freno, con tutti gli strumenti dell’argomentazione. Nello spazio pubblico, siamo noi la scorta di Silvia Romano. Lo siamo ogni volta che non lasciamo che la sua voce sia distorta, che sia un bersaglio facile poiché isolato. Perché quando scende in campo la logica della miseria, con tutto il suo esercito di miserabili, chi tace è complice.
Valeria Meazza