La denuncia da parte di Antonio Fiumefreddo, numero uno di Riscossione Sicilia, in una lettera dove denuncia il regime di esenzione che di fatto persiste negli stabilimenti petrolchimici dell’Isola. Se l’uomo voluto ai vertici della compartecipata da Crocetta dovesse avere ragione, per la Sicilia giunge il momento di chiedere il conto.
E si tratterebbe di un conto salato molto più dell’acqua di mare. Non meno di 60 milioni di euro, che potrebbero anche triplicare. Dopo anni di stallo, la Regione Sicilia ha deciso di indagare su tutte le piattaforme petrolchimiche che si affacciano sul demanio marittimo siciliano. “Non hanno mai pagato il canone demaniale”, si legge su Il fatto quotidiano e per di più – chiosa Fiumefreddo – “nessuno glielo ha mai chiesto”. Sembrerebbe giunto il momento, quindi, di iniziare a farlo. Sarebbero almeno dieci anni che gli stabilimenti petrolchimici di Gela, Agrigento, Augusta, Ragusa, Termini Imerese e Milazzo non pagano, ma al riguardo la questione è tutta da definire. Quei 60 milioni di cui parlavamo rappresentano una cifra certa, perché riguarda il demanio di terra; se a prevalere sarà la sentenza della Corte di Cassazione cui si è riferito Fiumefreddo, allora la cifra è destinata a lievitare perché terrà conto anche delle piattaforme in acqua. “E’ per questo che adesso stiamo allertando le procure della Repubblica competenti”, ha dichiarato il numero uno di Riscossione Sicilia al noto quotidiano.
Le piattaforme utilizzano beni del demanio statale, al pari dei lidi balneari che pagano tasse di concessione sia per i lettini e i chioschi sulla spiaggia, sia per zattere e qualsiasi altro gioco da fissare in mare. Eppure, pare proprio che per le trivelle finora i titolari abbiano versato esclusivamente somme al momento della concessione, come una tantum. Il primo controllo è stato effettuato allo stabilimento petrolchimico di Gela, dove è emersa tutta la gravità dell’esenzione de facto. Una pratica che Fiumefreddo non ha esitato a definire “improvvida e incomprensibile”, visto il palese danno all’erario regionale.
E veniamo dunque alla famosa sentenza della Corte di Cassazione, cui Fiumefreddo fa riferimento. Si tratta della sentenza n. 3618/2016, che ha posto fine a una questione che si trascina da anni. Secondo la Suprema Corte, le piattaforme petrolifere sono soggette ad accatastamento, pertanto Ici, Imu e Tasi sarebbero da versare nelle casse dell’erario. Inoltre, benché il mare non faccia parte dei beni del demanio marittimo (cui appartengono i lidi e le spiagge), i beni impiantati nei fondali marini sono da ascrivere ai beni del demanio marittimo.
La questione, in realtà, è tutt’altro che chiarita. Nonostante la sentenza sia dello scorso febbraio, agli inizi dell’estate il Dipartimento delle Finanze ha adottato la risoluzione secondo cui per piattaforme e compagnie petrolifere non è previsto alcun pagamento di Imu e Tasi. Fine della vicenda? Niente affatto! Lo scorso 18 luglio, il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti si è espresso positivamente sulla risoluzione presentata da Ferdinando Alberti, M5s, in commissione Attività Produttive. Con questo provvedimento si conferma quanto stabilito lo scorso febbraio dalla Corte di Cassazione, le trivelle sono da assoggettare alle imposte locali sugli immobili.
Se Fiumefreddo vincerà la sua battaglia, la sola Eni dovrà versare una cifra non indifferente, per le sue quattro piattaforme petrolifere Gela1, Gela Cluster, Prezioso e Perla. Cifra che andrà nelle casse del comune di Gela e in quelle regionali. I petrolieri finora impegnati nell’estrazione e nella raffinazione del greggio avranno due mesi di tempo per provvedere al pagamento, dopodiché passa tutto alla Procura della Repubblica competente per territorio e, in caso la compagnia petrolifera continui a non pagare, si arriverà alla revoca della concessione. Giungerà, finalmente, quel momento tanto atteso in cui non si farà lo sconto a nessuno?
Alessandra Maria