Il filosofo greco Aristotele (IV secolo A.C.) nella sua “Politica” scrisse che gli uomini sono animali sociali in quanto tendono ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società, ma se consideriamo che l’essere umano raramente forma gruppi sociali dove l’elemento di aggregazione è il benessere collettivo, possiamo continuare a considerarlo un animale sociale?
Pensare all’uomo come a un animale sociale è etologicamente un’assurdità e culturalmente fuorviante.
Ogni tipo di raggruppamento del mondo animale, branchi di lupi, stormi di uccelli, mandrie di bovini, banchi di pesci, colonie di gatti, sciami di api e naturalmente le scimmie che più di tutti gli altri animali ci assomigliano, tutti questi gruppi tanto diversi tra loro hanno una regola in comune: chi non si assoggetta alle regole che garantiscono una vita prospera e serena viene immediatamente espulso e a volte ucciso.
Noi umani siamo il paradosso dell’etologia, noi formiamo gruppi sociali infinitamente più numerosi dei loro dove l’elemento di aggregazione non è il benessere collettivo ma il suo esatto contrario.
Viviamo in gruppo con le caratteristiche degli animali solitari. Possediamo la ferocia del leopardo, la furbizia della volpe, la spietatezza del pitone, il mimetismo del polipo, la voracità del tasso, l’indifferenza della vongola.
Per far convivere le nostre caratteristiche individuali con la socialità abbiamo trasformato quello che in altri gruppi ci avrebbe causato l’espulsione o la morte in un valore: la Prepotenza.
La prepotenza del vicino di casa che fa casino, dell’automobilista che parcheggia di traverso, di chi salta la fila e di chi si fa raccomandare. E poi quella dei potenti, dei padroni, dei politici, dei ricchi, dei delinquenti.
E alla fine il paradosso in qualche maniera funziona, l’equilibrio minimo indispensabile viene garantito non dal benessere collettivo ma dal contrapporsi delle prepotenze, chi è più stronzo vince e gli altri che si fottano.
Va bene tutto, ma nessuno mi venga a dire che siamo “animali sociali”.