Sabato scorso ho avuto modo di conoscere una realtà di aiuto per uomini maltrattanti. In Italia non ne esistono molte, ma sono gruppi in cui uomini che hanno commesso violenza (o che si riconoscono come violenti) trovano degli psicoterapeuti che li aiutano a prendere atto dei propri comportamenti e insegnano loro come gestire la rabbia. Mi diceva il responsabile di questo gruppo che il 99% delle persone che seguono queste terapie, anche se all’inizio sono riluttanti, va fino in fondo, perché scopre per la prima volta che si può parlare dei propri sentimenti con altri uomini. Che non è una cosa “da donne” o “da gay”, che non si è deboli, che non è una sconfitta. E che è bellissimo e liberatorio.
Agli uomini mancano reti di supporto, manca la possibilità di esprimere quei pensieri, anche negativi, che troppo spesso non sanno come sfogare se non con la violenza fisica, mancano spazi di soli uomini che non siano dominati dalla competizione e dalla performance. E tutto perché l’interiorità nella nostra cultura o è speculazione filosofica sui massimi sistemi o è melensa robaccia per ragazzine. E la fragilità, la sconfitta, il dubbio, la perdita sono cose che bisogna sempre nascondere sotto il tappeto. Invece no, parlare dei propri sentimenti, di come ci si sente, di cosa ci fa stare male nella società è l’unica pratica che ci salva dalla violenza. Dal subirla e dal commetterla.
In questa Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in cui si parla solo di donne nelle casse da morto e di uomini coi coltelli in mano, facciamo un passo indietro e parliamo delle responsabilità di tutti.