Si festeggiano oggi, si uccidono domani: il femminicidio non si ferma

Femminicidio

Oggi, 8 marzo, si festeggia la Giornata della Donna. Una giornata in cui le brutture vogliono apparire meno evidenti. Come polvere, esse vengono volutamente scacciate sotto spessi tappeti, nella speranza che non vengano viste. Oggi le donne vengono festeggiate, il resto dell’anno vengono uccise. Il femminicidio, però, è una macchia troppo grande: difficile da pulire, persistente come sangue, evidente sull’enorme tappeto dell’ipocrisia, di cui oggi si fa ampio sfoggio.

Il femminicidio è un atto. Un gesto deciso, un colpo netto, impregnato di sentimenti crudi: odio, ossessione, paura, egoismo. È un’azione vivida, un finale già scritto, una storia giunta a termine.

A morire sono sempre le protagoniste, le stesse che davano voce alle proprie storie. Tessitrici di parole riportate su denunce archiviate, narratrici instancabili di registrazioni messe agli atti, inventrici di finali diversi, speranzosi, in cui si tornava alla vita, svegliandosi da quello che si rivelava essere solo e soltanto un brutto incubo.

Tuttavia, nella maggior parte dei casi, alle storie di cui sono state portatrici viene aggiunto un finale diverso. A scriverlo non sono loro, ma uomini che conoscevano, decisi a terminare la storia a proprio modo. Le donne vengono uccise. Muoiono dopo calvari lunghi mesi, anni; muoiono dopo aver taciuto, dopo aver denunciato. Muoiono d’un tratto, urlando o in silenzio; muoiono provando di nuovo paura, lasciandosi alle spalle il finale che avevano scritto per sé.

Il femminicidio come punizione perfetta per donne libere

Il femminicidio, nonostante se ne parli con maggior veemenza negli ultimi anni, non ha origini recenti. Le donne, da sempre, sono state viste come creature controverse. Dipinte, descritte, raccontate sotto sguardi di uomini fedeli alla propria paura.

Le donne libere, sin da tempi antichi, hanno scatenato orde di scandali e timori, che andavano velocemente messi a tacere. È così che sono nate le streghe e, di conseguenza, il bisogno di costruire roghi su cui bruciarle.

Il femminicidio è un fenomeno sociale, non certo naturale, che prende vita all’interno di un contesto di disuguaglianza strutturale fra uomini e donne, in cui quest’ultima deve adempiere al ruolo di sottomessa, subordinata alla volontà e all’arbitrio maschile.

Anche oggi, in Italia, quando le gerarchie si infrangono, le donne assumono sembianze mostruose: diventano infedeli, lascive, perfide e punibili. Se disobbedire a leggi invisibili e misogine per le donne è pericoloso, per alcuni uomini è, fondamentalmente, insopportabile: vittime a loro volta di una virilità corrotta, soccombono alla vergogna di essere stati scavalcati, lasciati, potenzialmente traditi da chi, teoricamente, doveva appartenergli a capo chino.

Nella maggior parte dei casi a compiere il femminicidio è chi, con la vittima, aveva un legame affettivo. Il principale movente, infatti, risulta quello della gelosia e del possesso. È da chi diceva di amarle, che le donne vengono private prima della libertà, poi della vita. Una situazione complessa, che spesso rende difficile denunciare: per proteggere i propri figli, per paura delle ritorsioni, per la speranza effimera che, quei primi segni di violenza, si rivelassero un incidente, uno sbaglio, un punto da cui ricominciare.

Ulteriore motivo di spavento è l’indifferenza delle istituzioni. Anche quando le donne denunciano chi le perseguita, attingendo a piene mani al proprio coraggio, vengono uccise. Decine di denunce ignorate, di protezioni negate, di restrizioni inconsistenti, contribuiscono all’isolamento delle vittime, lasciate alla propria paura e alla terribile consapevolezza che, potenzialmente, potrebbero essere le prossime a morire. È questa rassegnazione terribile che rende colpevoli le istituzioni di uno Stato invecchiato, sordo e cieco.

Non solo numeri, ma donne

È da poco scoccato il 2023, ma nuovi casi di femminicidio sono già stati registrati.

Nel 2017, secondo i risultati della banca dati dell’Eures, le donne uccise sono state 141. Nel 2018 le donne uccise sono state 142. Nei primi dieci mesi del 2019 le donne uccise erano già 94, una vittima ogni 3 giorni. Nel 2020 le donne uccise sono state 112. Nel 2021 le donne uccise sono state 103. Al termine del 2022 le donne uccise sono state 120.




Un elenco asettico, con numeri spaventosi che, bisogna ricordarsene, non sono solo numeri, ma vite reali. Storie vere, di donne a cui è stata strappata la vita perché chi lo ha fatto credeva di averne il diritto.

Nel 2023 le donne uccise sono già state 12. La prima, Giulia Donato, è stata uccisa dal fidanzato con un colpo di pistola a soli ventitré anni, il 5 gennaio 2023, mentre dormiva. A Giulia, si sono aggiunte altre donne: Oriana, Martina, Teresa, Yana, Giuseppina. Chi aveva poco più di vent’anni, chi ne aveva cinquanta, chi trenta e chi più di ottanta, ma tutte donne, tutte uccise dai propri compagni, ex amanti, mariti, cosicché non potessero più ricominciare, non senza di loro.

A tutto questo si lega anche il problema degli orfani di femminicidio. Per loro, rimasti senza madre per volontà – spesso – del padre, si apre una strada tortuosa, fatta di lunghi ingorghi burocratici: assistenti sociali, scontri familiari, tribunali, case-famiglia, affidamenti in prova.

La scia di sangue che si porta dietro il fenomeno del femminicidio è recondita, ininterrotta, scrupolosa. Chi se ne macchia le mani, in Italia, non ha alcun timore delle conseguenze e spesso neanche lo coinvolgono. Chi sceglie e programma di uccidere, si muove seguendo il proprio odio, spacciato per disperazione, la propria ossessione, spacciata per amore, senza fermarsi sino a quando ciò che credeva solo suo, non esisterà più per nessun altro.

Prima abbandonate, poi uccise: se lo Stato resta a guardare è complice

La solitudine in cui ricadono le vittime è uno degli aspetti più sconcertanti. Molte donne uccise, infatti, vantavano numerose denunce, rivelatesi inutili. Richieste d’aiuto ignorate, capaci di passare in sordina, almeno sino a quando chi alzava la voce viene messo a tacere per sempre.

È interessate ricordare come, fino a qualche decennio fa, all’interno del codice penale italiano era contemplabile il cosiddetto “delitto d’onore”. L’omicidio della moglie da parte del marito, per motivi di gelosia, orgoglio o vergogna, veniva considerato meno grave e poteva risolversi con una pena mite.

Le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate solo nell’agosto del 1981, meno di quarant’anni fa. Questo dovrebbe far riflettere a lungo sulla considerazione che si aveva della donna in Italia e di come questo tipo di mentalità sia ancora presente, pesante come piombo, tra le ragioni dei femminicidi, molti dei quali rimasti impuniti.

Nel concreto, il Senato italiano ha cominciato a occuparsi di femminicidio nel 2013, quando è stata istituita un’apposita commissione di inchiesta. Nella scorsa legislatura la commissione è stata ricostituita e lo scorso 25 novembre il Senato ha votato per ricostituirla una terza volta. Tuttavia, quello che ancora manca è una rete di interventi rapidi, soprattutto nella prima fase di allarme. Urgente è la creazione di una connessione funzionale, immediata, fra autorità sanitarie, forze dell’ordine e autorità giudiziaria, volta a non lasciare sole le donne che denunciano.

Oltre alla necessità di un inasprimento delle pene attuali, a fare la differenza, ancora una volta, è l’istruzione: educare i futuri uomini al rispetto verso la compagna di banco, l’amica, la fidanzata. Far comprendere loro l’inviolabilità delle libertà personali. È un passo fondamentale, proprio perché l’immagine della donna – e del femminicidio stesso – affonda le sue radici in relazioni di potere asimmetriche, quelle in cui le figure femminili vengono rinchiuse in spazi marginali e precostituiti.

L’importanza delle parole accompagnate da fatti

Oggi giornate come l’8 marzo e il 25 novembre perdono di significato se non accompagnate da cambiamenti reali. Mentre si consumano celebrazioni sfarzose e discorsi retorici, l’elenco dei femminicidi si allunga, brutalmente, senza che si attuino interventi istantanei.

Alle donne, vittime di violenze, si continua a ripetere di denunciare, ma pare lecito domandarsene la ragione se il risultato rimane il medesimo o, peggio, rischia di aggravarsi, alimentando la rabbia di uomini pericolosi e all’apparenza inarrestabili.

Le belle parole non bastano, le promesse vuote neanche.

Le donne, esponendosi, hanno bisogno d’essere circondate da una rete che sappia reggere il peso delle loro storie, altrimenti il rischio è quello d’essere spazzate via, dando l’impressione disorientante che il peso delle loro esistenze sia esiguo, inconsistente e sacrificabile.

Angela Piccolomo

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