Irina Sherbakova, co-fondatrice dell’associazione International Memorial Society, vincitrice del premio Nobel per la Pace 2022, dichiara che “in Ucraina, l’unica soluzione possibile è militare”.
Sono assolutamente convinta che non vi sia alcuna possibilità di una soluzione diplomatica con il regime di Putin, fintanto che rimarrà in carica.
Queste sono le dichiarazioni rilasciate da Irina Sherbakova, co-fondatrice dell’ONG Memorial, alla quale, nel 2022, è stato assegnato il Nobel per la Pace. La storica russa si era recata ad Amburgo per ricevere il premio Marion Doenhoff Prize, conferitole dal cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Il premio ha rappresentato un ulteriore riconoscimento per tutti gli anni di lavoro dedicati alla difesa dei diritti umani in Russia. L’associazione Memorial, fondata nel 1989, infatti, si è nel tempo affermata come uno dei pilastri della tutela dei diritti civili in Russia. L’ONG si è occupata di mantenere viva la memoria della vittime dei gulag sotto il regime staliniano, stilando negli anni un lungo elenco dei crimini commessi dall’URSS.
Nell’intervista che ha seguito la cerimonia di premiazione, tuttavia, la Sherbakova ha rilasciato delle dichiarazioni non propriamente “pacifiche”. Ha bollato come infantili quegli appelli alla pace che trovano largo sostegno nell’opinione pubblica tedesca, affermando che:
A mio parere, l’unica soluzione possibile adesso è quella militare. Uno scioglimento del conflitto sarà possibile soltanto quando l’Ucraina riterrà di aver vinto questa guerra e potrà stabilire le sue condizioni.
Guerra è pace?
L’intervista è stata riportata da diverse testate giornalistiche, le quali hanno sottolineato l’importanza del lavoro svolto da Memorial nell’ambito dei diritti umani, e l’ingiusta repressione che l’ONG ha dovuto subire sotto il governo di Putin. Al di là di quali possano essere le convinzioni personali in merito ad una possibile risoluzione del conflitto, nessuno sembra aver rilevato il paradosso. Il fine della pace giustifica i mezzi? O, riprendendo lo slogan del Socing, nel romanzo 1984 di George Orwell: “Guerra è pace”(?).
Sembra pensarla così la giuria che, nel corso degli anni, ha avuto il compito di assegnare i Premi Nobel per la Pace, contraddicendo, in molti casi, i valori fondanti del famoso premio. Il testamento lasciato da Alfred Nobel, il 27 novembre 1895, affermava, infatti, che il Nobel per la Pace sarebbe andato:
Alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace.
Non-violenza, democratizzazione dal basso, mobilitazione della società civile. Questi sono i valori alla radice del concetto di Pace. Il sostegno che hanno ricevuto le affermazioni di Irina Sherbakova ci portano, dunque, a riflettere sul significato più ampio di pace, e sul valore del relativo Nobel.
Da Maria Teresa ad Abiy Ahmed Ali
Cosa hanno in comune, solo per citarne alcuni, Maria Teresa di Calcutta, Denis Mukwege, Abiy Ahmed Ali e Harry Kissinger? Sono tutti vincitori del Premio Nobel per la Pace. Mentre i primi due sono famosi per le attività umanitarie svolte – Maria Teresa ha dedicato la vita al servizio dei poveri in India, mentre Mukwege è un medico e attivista, fondatore di un ospedale dedicato alle vittime di stupro-, ombre di sangue macchiano l’onorificenza degli altri. Il primo ministro etiope, ex-militare, Abiy Ahmed Ali, Nobel per la Pace 2019, è stato premiato per i suoi sforzi nel raggiungere la pace e per le iniziative decisive per risolvere i conflitti lungo il confine con l’Eritrea. Iniziative che hanno preso forma di campagne militari, crimini di guerra e incitamento alla violenza etnica.
Lo statista statunitense Harry Kissinger, invece, ricevette il Premio nell’ormai lontano 1973, per la firma sul trattato di pace che sancì la fine “ufficiale” della guerra in Vietnam. Paradossalmente, fu proprio quell’anno che, anche grazie al suo appoggio, Pinochet rovesciò il governo Allende in Cile, dando il via a una delle più sanguinose dittature sudamericane. Lo stesso Barack Obama, vincitore nel 2009, non si è di certo prodigato per una rapida risoluzione dei conflitti armati sostenuti dagli USA.
Un Nobel per la Pace armato?
La guerra è quindi un mezzo tragico, ma necessario, che giustifica il fine? Sembra affermativa la risposta sempre più condivisa, anche da alcuni attivisti per i diritti umani, e confermata dai numerosi Nobel per la Pace “armati”. Le speranze in una risoluzione diplomatica del conflitto sono “infantili”, idealistiche. È giunto il momento di smettere di sognare e venire a patti con la realtà? Eppure sono proprio i sognatori, i visionari e gli idealisti che, nella storia, hanno guarito le ingiustizie e costruito i processi di pace più duraturi.
Seminare la cultura della pace significa coltivare questi sogni, affinché un giorno possano plasmare la realtà. Il partito delle armi è potente e non ha bisogno di nuovi alleati. Il Nobel per la Pace rappresenta un simbolo importante. Dovrebbe sostenere tutti quei “coltivatori della pace”, uomini e donne, che non hanno paura di essere giudicati “infantili”. Non ci si può continuare a nascondere dietro la teoria delle “guerre giuste” e necessarie. Un programma di militarizzazione non è un’azione umanitaria. Le stragi di civili non sono “danni collaterali”. La guerra non è pace.
Eva Moriconi