Il caso di Shamima Begum, tra diritto di cittadinanza e sicurezza nazionale

Shamima Begum Siria

Il 26 febbraio 2021, con una sentenza destinata a far discutere, la Corte Suprema inglese ha deciso di revocare la cittadinanza britannica ed impedire il ritorno nel Regno Unito alla ventunenne Shamima Begum, attualmente detenuta in una campo profughi in Siria.

La storia di Shamima parte in Inghilterra, paese dove è nata ed è stata cresciuta dalla famiglia di origine bengalese. Nel 2015 a soli quindici anni, insieme a due compagne di classe anch’esse minorenni, Shamima ha abbandonato la propria vita e il proprio paese decidendo di unirsi ai combattenti dell’Isis.

La storia di Shamima Begum

Partendo dall’aeroporto di Londra e passando per la Turchia, grazie ad una calcolata organizzazione in rete con altri militanti, Shamima e le sue compagne sono giunte prima in Iraq e poi in Siria per unirsi alle forze di Daesh. Dieci giorno dopo l’arrivo, Shamima ha sposato il foreign fighter Yago Riedijk, olandese convertitosi all’islam presente in Siria dall’anno precedente, con il quale ha avuto tre figli, oggi tutti deceduti. Dopo la fuga delle tre ragazze nel 2015, le forze governative inglesi si erano pronunciate speranzose per il rientro delle giovani cittadine, tuttavia di loro si sono perse velocemente le tracce.

Le prime notizie di Shamima Begum si hanno nel 2019, quando un giornalista britannico del Times la rintraccia in un campo profughi siriano, incinta del terzo figlio.  A seguito della caduta della città di Al-Baghuz Fawquani, ultima roccaforte dell’Isis in Siria orientale, Shamima si era ritrovata prigioniera delle forze democratiche siriane, che gestiscono prigioni e campi di detenzione per i combattenti nemici rimasti in vita e per le famiglie dell’Isis. Già in quella prima occasione, come anche pochi giorni dopo durante un’intervista rilasciata per la BBC, Shamima aveva espresso il desiderio di ritornare in Inghilterra per poter crescere il figlio in arrivo.

La revoca della cittadinanza e la battaglia legale di Shamima Begum

La giovane, quando inizialmente interpellata circa le proprie azioni e i crimini commessi dopo essersi unita all’Isis, non ha espresso rimorso né si è dissociata dagli ideali promossi dall’organizzazione: per questo motivo, nel febbraio del  2019, il segretario di stato Sajid Javid ha deciso di revocarle la cittadinanza inglese, rendendola sostanzialmente apolide.

Il motivo dichiarato alla base di tale decisione consiste nell’obbligo, da parte del governo britannico, di dare priorità alla sicurezza nazionale e alla difesa della popolazione. A seguito della sentenza e dopo ricevuto minacce per aver parlato con i giornalisti, Shamima e il figlio neonato sono stati trasferiti dal campo profughi di Al-Hawl in un altro sito vicino al confine con l’Iraq. Dopo pochi giorni il bambino, tecnicamente cittadino inglese per diritto di nascita, è morto per complicanze legate ad una polmonite.

Dal 2019 ad oggi si è giocata un’aspra battaglia legale tra l’avvocato di Shamima Begum Tasnime Akunjee e il governo inglese circa la legittimità della revoca della cittadinanza, una lotta che Shamima continua a portare avanti dal campo profughi in Siria.  Come dichiarato fin dal 2019, e in particolar modo ribadito a seguito degli ultimi sviluppi, l’avvocato Akunjee ha affermato che la sua cliente non si è mai trovata nelle condizioni di affrontare un giusto processo. Infatti, il campo dove si trova attualmente non le permette di incontrarsi con i suoi avvocati e la giovane non dispone dei mezzi per istruirli via telefono senza incorrere in gravi rischi per la propria incolumità. Per questo stesso motivo, a luglio dell’anno scorso, la Corte d’appello si era espressa a favore del rimpatrio come unico modo per garantire il diritto ad un giusto processo contro la revoca della cittadinanza.

Ribaltando tale decisione, venerdì scorso la Corte Suprema ha sentenziato a favore della scelta del segretario di stato del 2019, affermando che non sia necessario trovarsi sul territorio nazionale per affrontare un giusto processo. Secondo l’avvocato di Begum, la minaccia di terrorismo rappresentata dall’eventuale rientro della sua cliente non è da considerarsi una valida giustificazione per la violazione di un diritto fondamentale come quello alla cittadinanza.  A tale proposito,  i giudici della corte suprema hanno ribadito che il suo ritorno costituirebbe un grave pericolo dal momento che non vi sarebbe certezza di poter portare a processo la giovane per i crimini compiuti durante gli anni di militanza per l’Isis.

Che cosa dice la legge sul diritto di cittadinanza?

L’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani stabilisce chiaramente il diritto di ognuno ad avere una cittadinanza e che nessun individuo possa essere privato arbitrariamente della propria cittadinanza e di tale diritto. Secondo la legge britannica un cittadino può essere privato della cittadinanza solo qualora le motivazioni siano legate ad un serio pericolo o minaccia per la sicurezza nazionale e, in ogni caso, solo se il soggetto in questione può richiedere una cittadinanza alternativa.

Nel caso di Shamima Begum, la revoca non avrebbe solo a che fare con la sicurezza nazionale ma anche con la dichiarazione, piuttosto arbitraria, che la giovane sia eleggibile per la cittadinanza del Bangladesh, paese d’origine dei suoi genitori che lei non ha mai visitato. Infatti, secondo la legge inglese, la cittadinanza di un individuo nato e cresciuto nel Regno Unito da genitori a loro volta nati e cresciuti sul territorio nazionale è una cittadinanza irrevocabile. Al contrario, la cittadinanza di un individuo i cui genitori siano nati in un altro paese è passibile di essere revocata in casi straordinari, anche nell’eventualità in cui tale individuo non abbia mai lasciato il Paese.

Questioni politiche e morali nel caso di Shamima Begum

Il caso di Shamima Begum ha avuto, e continua ad avere, risonanza internazionale non solo per la particolarità della vicenda ma soprattutto perchè tocca ambiti e tematiche circa le quali non ci sono ancora linee guida definite. Tra questi vi è il problema della gestione dei rimpatri dei cittadini europei ex combattenti per l’Isis ancora in vita, detenuti nei campi di prigionia. Le forze democratiche siriane, che gestiscono i campi profughi come quello dove si trovava Shamima Begum, hanno ripetutamente chiesto ai paesi d’origine dei prigionieri di rimpatriarli.

Già dopo la morte del terzo figlio, la causa di Shamima Begum era stata appoggiata da diversi movimenti per i diritti umani e anche da alcuni esponenti del Partito Laburista, che a febbraio 2019 avevano fortemente criticato la decisione di negare il rimpatrio di madre e figlio, in particolare dal momento che almeno il bambino conservava ancora la cittadinanza britannica.

A seguito della sentenza della corte Suprema del 26 febbraio scorso, il gruppo per la difesa dei diritti umani Liberty è intervenuto affermando che la revoca arbitraria della cittadinanza e la negazione ad un giusto processo nel caso di Shamima Begum costituiscono un precedente assai pericoloso. I legali dell’organizzazione hanno sottolineato come le decisioni di revocarle la cittadinanza e negarle il rimpatrio per poter essere presente al suo stesso processo in appello siano frutto di un accanimento nei suoi confronti, volto a fare della sua figura un esempio .

A sostengo di questa visione della faccenda ci sarebbe il fatto che non a tutti i cittadini inglesi che hanno lasciato il Regno Unito per unirsi all’Isis sia stata revocata la cittadinanza, e che molti individui nella stessa posizione di Begum siano stati rimpatriati. Secondo un’indagine dell’Europol oltre il 40% dei sopravvissuti,  testimonierebbe la volontà di sfruttare il suo caso come modello e prova della sicurezza e della perizia del governo inglese, celando l’inadeguatezza delle politiche antiterrorismo passate ed attuali.

Quanto sono sacrificabili alcuni diritti fondamentali in nome della sicurezza?

Che Shamima Begum, così come molte giovani europee, sia stata vittima di traffico di esseri umani e adescamento di minori online e che sia, con tutta probabilità, stata indottrinata negli anni attraverso violenze e abusi è fuori discussione. Ciò che è importante ribadire è che, al di là della colpe a lei imputabili, per quanto terribili queste possano essere, una nazione non può permettersi di decidere arbitrariamente di revocare la cittadinanza a qualcuno solo perché ritiene il suo comportamento sconveniente o perché non intende assumersi la responsabilità di gestire la complessità della situazione.

Il Regno Unito non ha solo un dovere legale nei confronti di Shamima ma anche un dovere morale: privarla della cittadinanza non significa semplicemente tenerla fuori dal territorio nazionale ma anche costringere un altro stato ad assumersi le medesime incombenze. Questo sarebbe appunto il Bangladesh, secondo le cui leggi per i crimini imputabili a Shamima Begum vige la pena di morte.

Ecco che la revoca della cittadinanza, più che una precauzione per difendere la sicurezza nazionale o una sorta di punizione per le scelte e le azioni di coloro che decisero di unirsi all’Isis, si manifesta per quello che è realmente:  una strategia governativa volta ad impedire il loro rientro sul territorio nazionale, un quasi conforme alla legge “lavaggio di mani” sulle sorti di individui che sono e devono essere responsabilità del paese e della società che li hanno formati.

Il fatto che negli ultimi anni si sia registrato un incremento nell’esercizio del potere di revoca della cittadinanza da parte del governo britannico deve essere un campanello d’allarme: il rischio è quello di normalizzare una tendenza evidente a considerare gli individui che non possiedono un’eredità culturale o un retaggio familiare britannici come cittadini di seconda classe.

Marta Renno

Exit mobile version