L‘ISA, Autorità internazionale per i fondali marini delle Nazioni Unite, ha previsto nel 2016 la concessione di numerose licenze per effettuare scavi nel fondo degli oceani, le cosi chiamate miniere.
L’ONU ritiene che l’aumento della domanda dei metalli, la diminuzione dell’offerta e il miglioramento della tecnologia giustifichino la scelta, antieconomica fino a qualche anno fa.
Tutto è nato nel 1977 quando un gruppo di geologi, geochimici e geofisici americani scoprì l’esistenza di sorgenti termali sottomarine e due anni dopo, grazie a uno speciale sottomarino, riuscì a osservarle nella dorsale oceanica presso le isole Galápagos.
Dalle fenditure sgorga acqua a componente acida alla temperatura di circa 400°. A contatto con l’acqua gelida e alcalina del mare i minerali presenti nel liquido termale si solidificano e precipitano sul fondo.
Le particolari condizioni fanno sì che la concentrazione di sostanze sia più alta di dieci volte rispetto ai giacimenti sulla terraferma.
Parliamo di oro, argento, rame, piombo, zinco, cobalto, nichel, manganese e altre sostanze rare come ittrio e lantanidi, utilizzati nell’hi-tech.
A quarant’anni dalla scoperta la tecnologia sembra permettere lo sfruttamento di queste enormi ricchezze nelle miniere.
Nel 2012 un’azienda canadese, la Nautilus Minerals, dopo aver studiato i fondali ed effettuato sondaggi, ha ottenuto dal governo di Papua Nuova Guinea una licenza di vent’anni per lo sfruttamento di un tratto di mare di circa trenta chilometri al largo delle coste, a una profondità di 1.500 metri.
La ditta sostiene che estrarre i minerali dall’oceano sia più ecologico rispetto alla terraferma, non dovendo scavare dentro una montagna: bastano alcune macchine telecomandate che si limitano a spezzare la crosta superficiale limitrofa al canale termale in blocchi portati su una nave appoggio. Qui uno strumento separa la roccia da acqua e altri materiali che vengono poi restituiti al fondale tramite un’apposita tubatura per non contaminare le acque superficiali.
Per i responsabili l’impatto di queste miniere sarebbe minimo poiché, una volta terminata l’estrazione, il terreno attorno alle fenditure tornerebbe come quello originario in poco tempo.
Gli ambientalisti non sono d’accordo con questa visione semplicistica in quanto si tratta di un habitat di cui ancora non si conoscono tutte le specie e risulta impossibile prevedere le conseguenze degli scavi.
Infatti gli scienziati che nel 1979 scesero per la prima volta a studiare i camini sottomarini si stupirono per la numerosa fauna che trovarono, nonostante i grandi sbalzi di temperatura: lumache, polpi, vermi-tubo, granchi e razze. I vermi-tubo ospitano alcuni batteri ed entrambi trasformano le sostanze che fuoriescono dalle fenditure creando un rapporto simbiotico che ne consente la reciproca sopravvivenza.
Esiste pertanto un delicato ecosistema da cui dipendono diverse specie marine che dà vita a una catena alimentare che giunge fino a noi.
La prima minaccia è costituita dalle conseguenze del rilascio dei metalli tossici: nonostante le dichiarazioni della compagnia canadese secondo cui i residui dell’estrazione vengono restituiti alle profondità, durante i sondaggi effettuati l’acqua del mare appariva torbida: non sussistono quindi garanzie che i metalli non siano dispersi, arrivando alla fauna dei livelli superiori e alla costa. Si tratta di effetti che possono essere individuati soltanto dopo numerosi anni.
Esiste un secondo e più importante pericolo da tenere in considerazione: i microrganismi che vivono attorno alle bocche termali si nutrono del 90% del metano che ne fuoriesce. Senza di loro il metano arriverebbe in superficie trasformandosi in un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, con effetti deleteri per il clima del pianeta.
Chi garantisce che gli scavi subacquei non facciano crollare i camini sottomarini o che animali e vegetazione marina non vengano annientati?
Alcune delle sostanze che si vuole estrarre sono radioattive e occorre pensare dove collocare le scorie residuate dalla trasformazione delle rocce.
Nel frattempo molte compagnie, fiutato l’affare, stanno valutando di acquisire analoghe licenze in zone oceaniche come la Nuova Zelanda, la Micronesia e altre dell’Oceano Pacifico trovando il consenso dell’ISA per aprire nuove miniere.
Gli scienziati non hanno ancora compreso i complessi meccanismi che governano l’ecosistema di questi luoghi inaccessibili eppure l’uomo, forte di una tecnologia che lo porta ormai dappertutto, sceglie di farsi guidare dalle ragioni del Dio Denaro piuttosto che da quelle di un’etica responsabile, senza preoccuparsi delle conseguenze.
Gli effetti del gas serra sul clima e i pericoli dell’aumento della temperatura dovrebbero essere già evidenti: è il caso di rischiare un peggioramento irreversibile?
Paola Iotti