John E. Steinbeck pubblicò nel 1939 un libro dal titolo Furore e, in una delle pagine che segnano la storia della letteratura americana, così marchiava a fuoco parole di dolore che, seppur siano trascorsi ottant’anni, non passa giorno senza che questa ingiustizia non venga perpetrata.
E gli emigranti sciamavano per le contrade, e nei loro occhi c’era la fame, e nei loro occhi c’era il desiderio. Non avevano discorsi, non avevano criteri, non avevano altro che la loro quantità e il loro bisogno. Quando c’era lavoro per un uomo, dieci uomini lottavano per averlo – e la loro unica arma era il ribasso di paga. Ed era un affare, perché le paghe scesero e i prezzi rimasero alti. I grossi proprietari erano contenti e fecero distribuire altri volantini. […] In attesa di tornare ai tempi della schiavitù.
Non a caso un articolo di attualità inizia con questa citazione. Serve per raccogliere il coraggio che, quando non c’è, fa diventare le ginocchia molli. I pensieri si annichiliscono in una realtà talmente piccola, che ha deciso, chissà perché, di far finta di niente.
In Sud Corea, lo scorso dicembre muore una donna cambogiana. Si chiamava Nuon Sokkheng e lavorava in una fattoria a Pocheon. Aveva 31 anni ed è stata trovata in un container mal riscaldato, dove ci si sta perché non vi è alternativa (o forse, se un’alternativa non manca mai, è proprio quella).
Lo sfruttamento dei migranti in Sud Corea: il futuro vessato di migliaia di persone
Sono migliaia i migranti che decidono di lasciare i loro Paesi di origine. L’Asia è il primo continente in cui la gente emigra; si contano circa 106 milioni su 258.
In particolare, il Sud-est asiatico è fortemente colpito da questo fenomeno, come la Cambogia, la Thailandia, il Vietnam, Indonesia e Nepal. I motivi girano sempre attorno al futuro negato a causa della dilagante povertà.
La prospettiva di andarsene diventa più allettante di restare in un posto che ti offre ben poco. I giochi di potere hanno in scacco da molto tempo il futuro di questa gente e così ritroviamo padri, madri, figli che si spezzano durante questi viaggi di miseria e di ricerca.
Per questo, molte volte il punto di arrivo è la morte, perché le istituzioni sono rimaste in superficie mentre nel profondo, l’illegalità covava i suoi profitti.
Sfruttamento migranti in Sud Corea
Lo sfruttamento migranti in Sud Corea è una piaga che lacera giorno dopo giorno troppe vite, solo il 10% di 200.000 lavoratori hanno permessi per l’occupazione.
Gli immigrati invece, che sono privi di documenti, hanno difficoltà nel lasciare i loro datori di lavoro perché non c’è nessun tipo di garanzia ad aspettarli. Ciò anche quando subiscono maltrattamenti o il lavoro raggiunge le 10 o 15 ore giornaliere.
Da dicembre, solo nelle ultime settimane in Sud Corea si parla di “piani per migliorare le condizioni dei lavoratori agricoli migranti”. Questi piani includono maggiore possibilità di assistenza sanitaria ma i funzionari non hanno vietato l’uso dei container per “ospitare” i lavoratori perché fortemente scoraggiati dagli imprenditori agricoli.
Dopo la morte di Nuon Sokkheng, il pastore Kim Dal-sung, il quale è un fervente sostenitore dei diritti dei migranti, ha commentato la vicenda così:
“Questo è un mondo di illegalità. I proprietari di fattorie qui sono come monarchi
assoluti che governano sui lavoratori migranti e alcuni dicono che vogliono uccidermi.”
O ancora, la testimonianza di un lavoratore nepalese che aveva dolori molto forti alla schiena e alle spalle e descrive con queste parole ciò a cui ogni giorno è sottoposto:
“È una quantità di lavoro estrema.
Non hai pause per il bagno e nemmeno il tempo di bere acqua”
Il “problema” dello sfruttamento dei migranti non è solo dell’Asia
Lo sfruttamento migranti in Sud Corea non è un fenomeno solo relegato all’Asia o, spostandoci, all’Africa. Il “problema” di chi sfrutta e delle istituzioni che lavorano in maniera ambigua, non è un problema lontano migliaia di chilometri.
Proprio per fare un esempio e rispolverare la memoria: in Italia, il caporalato agricolo è una realtà persistente. La caratteristica fondamentale del caporalato è che la sua opera di mediazione si concentra sulle fasce più deboli della forza lavoro. Quando i caporali si spostano da un terreno agricolo ad un altro, radunando un numero di migranti che quel giorno lavorerà fino a sera per una retribuzione minima, cosa stanno facendo di diverso dagli imprenditori coreani?
I dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto ci dicono che circa 430.000 sono i lavoratori agricoli a rischio di caporalato in Italia. Di questi oltre 132.000 si trovano in condizione di grave vulnerabilità sociale e sofferenza occupazionale.
Cosa significa emigrare?
Andarsene, emigrare da un Paese all’altro, è una scelta che fa male. Crea prospettive, sì, ma uccide quella in cui si è. Quando si sceglie di lasciare le proprie radici perché si soffre la fame, perché non c’è lavoro, per lo studio o per una guerra che annienta, non ci si aspetta di trovarvi poi solo sfruttamento.
La ricerca di una dignità umana è strappata a morsi da dinamiche vecchie e di cui ci chiediamo: è possibile scardinarle?
Il concetto di cosmopolitismo va molto di moda tra le classi di cittadini europei, dove però se si parla di integrazione sorgono a galla complessi meccanismi di autodifesa, di nazionalismi ed occhi che si chiudono.
Nuon Sokkheng è il nome di oggi, ma ce ne sono talmente tanti di nomi che nascondono volti, legami, aspettative, dolori che queste notizie, ora in Sud Corea, domani altrove, dovrebbero smuovere i nostri castelli.
Maria Pia Sgariglia