Quest’anno, la Settimana dell’Insegnante si svolge dal 2 all’8 maggio. Eccoci, eccomi, quindi.
E il mio pensiero non può non concedersi un viaggio nel passato e fermarsi, sedersi al banco delle aule, delle scuole che hanno fatto da sfondo alla mia infanzia, alla mia adolescenza e alla mia giovinezza. E lì dove c’è un banco, un’aula, una scuola, c’è un’Insegnante. E sorrido: perché la mia vita non ha mai peccato di mancanza di fantasia. Anche per quanto riguarda le diverse e significative esperienze scolastiche.
Ricordo bene le mie maestre della scuola dell’infanzia, ricordo il loro volto perennemente illuminato di un’allegria che ora, da “grande”, m’appare ancor più formidabile perché possedeva la stessa misura e la stessa purezza della mia, che ero bambina e che non sapevo, non lo sapevo ancora quanto potesse esser difficile per loro ficcare pensieri, preoccupazioni e problemi nella borsa e chiuderla bene, per impedire che tutto venisse fuori durante l’orario scolastico. Ricordo come i miei traguardi fossero anche i loro, come riuscissero a vedere il giallo e il rosso come li vedevo io e come accettassero con entusiasmo che la bambina disegnata sul foglio si divertisse a saltare da una nuvola all’altra. E ricordo che grazie alla loro voce rassicurante, grazie al loro sguardo fiducioso e grazie alle loro coccole, imparai presto a vivere le nuove esperienze, a conoscere persone, ad apprezzare la bellezza della condivisione, con uno spirito aperto alle novità e con una mente pervasa dalla curiosità e amante di tutto ciò che, nascosto, deve essere scoperto.
Lieve come il passo di un bambino fu il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria.
E furono le maestre della nuova scuola ad insegnarmi, per prime, che nulla è talmente grande, talmente alto da diventare un ostacolo insuperabile, se i muscoli e la volontà di chi è chiamato a compiere la piccola grande impresa sono pronti a sfidare anche le leggi della natura e quelle della logica. Furono loro ad insegnarmi che una promessa è molto più di un pugno di parole: è un impegno e occorre far di tutto per rispettarlo e per realizzarlo. Loro mi hanno insegnato che quando una persona sceglie il mestiere dell’insegnante, non è tanto per la passione che prova per la disciplina che insegna ma più che altro per l’amore che nutre nei confronti degli studenti e delle studentesse che la vita le farà incontrare. Ed ho visto la maestra di storia, rinunciare a parlare di Garibaldi per ascoltare la storia che uno, una di noi voleva raccontare e che, in quel momento, aveva la priorità su tutto. Ho visto la maestra di italiano sfogliare il testo e dirci che stavamo procedendo alla grande e di non preoccuparci se eravamo indietro col programma: imparare è un’Arte, dell’Arte ci si deve innamorare e per innamorarsi, ognuno ha bisogno dei suoi tempi. Ed ho visto la maestra di geometria addossare tutti i banchi al muro per permetterci di creare un girotondo: il cerchio, tuttora, è la figura geometrica che preferisco! Ricordo i loro volti, i loro sorrisi e ricordo quanto mi aiutarono a credere in me stessa e ad avere fiducia nelle mie capacità: proprio perché diverse da quelle dei compagni e delle mie compagne, erano eccezionali! E ricordo quanto fu difficile, quanto mi costò accettare che era finita, che non ci sarebbe stato un altro settembre da vivere insieme, sullo sfondo di un’infanzia bella e degna di memoria, anche grazie a loro.
Era terminato, in quel giugno, uno dei periodi più belli, erano terminati gli anni in cui l’Insegnante era la maestra che ci attendeva all’entrata di una scuola che aspettava solo di vederci crescere, senza farci pesare altre sue aspettative.
Come si dice: chiusa una porta, s’apre un portone. E il portone della scuola media, mi fece capire da subito che crescere significa sapersi adattare, essere in grado di accettare anche quello che non si gradisce e soprattutto, lungo quei corridoi e in quelle aule, compresi immediatamente che sarebbe toccato a me, da quel momento in poi, cogliere il positivo e il bello della nuova scuola: nessuna maestra l’avrebbe fatto per me né mi avrebbe fatto vedere come si fa. E il meglio lo ricordo durante le lezioni del professore grazie a cui conobbi il gabbiano Jonathan, di cui lui parlava spesso ( senza mai dirgli che lessi subito quel libro, divenuto una delle mie letture preferite); lo stesso professore che con i voti non si sbilanciava mai, insegnandomi l’obiettività; lo stesso professore che, non dimenticherò mai, ci chiese di scrivere il diario di un’intera settimana: non omisi nulla, né mentii su qualcosa scrivendo di quelle mie giornate, perché ero sicura che quel professore avrebbe compreso, che m’avrebbe capita ed ero certa della sua capacità di leggere tra le righe, lì dove pochi si soffermano.
E se il tempo scorre anche per svelare significati nascosti in vicende e in situazioni, come non ringraziare anche il professore di italiano e i suoi rimproveri: non sapevo prendere in mano la penna come si deve, diceva. Forse perché, professore, ero troppo concentrata ad usarla come si deve, nel miglior modo possibile. E rileggendo i miei vecchi scritti, anche quelli riconducibili a quegli anni, posso dire di esserci sempre riuscita. E come non ringraziare il professore di matematica e i suoi richiami: i conti non tornavano mai. Già. Grazie a lui ho capito che nella vita tutto è opinione: anche la matematica. E che dietro ad un risultato errato, v’è molto più di un limite cognitivo: c’è la fantasia di una mente che di numeri e formule, preferisce farne poesie!
I miei, le mie Insegnanti: come dimenticare anche un solo volto, una sola voce. Ognuno di loro ha lasciato un segno, come quelli che si incidono sul banco per far sapere a chi verrà dopo che ci siamo stati prima noi lì. Ognuno di loro, a suo modo, con i suoi pregi e i suoi difetti, mi ha insegnato qualcosa. Ognuno di loro, sia che incutesse terrore e sia che rallegrasse anche la prima ora del lunedì, mi ha trasmesso emozioni e mi ha insegnato a dare un nome a ciascuna di queste. E mi ha insegnato a viverle.
Se non fosse stato per loro, non avrei riconosciuto ed apprezzato la bontà e la genialità dei professori e delle professoresse che, durante gli anni delle scuole superiori e durante l’avventura universitaria, hanno perdonato le mie stravaganze, rispettato le mie propensioni, ascoltato le mie opinioni, apprezzato i miei sforzi e incoraggiato i miei passi sempre più consapevoli.
Quei passi che mi hanno portata dietro ad una cattedra e che mi hanno permesso di constatare quanto sia bello essere un’Insegnante! Che mi hanno permesso di vedere quanto tutto ciò che accade all’interno di un’aula, sia imprevedibile, emozionante, complesso e degno di notti insonni. E quanto difficile sia sentir suonare l’ultima campanella, sapendo che non ne suonerà un’altra alla quale seguiranno le urla che più della sveglia, hanno svegliato occhi, sensi, cuore e testa rendendoli pronti a tutto. Perché un’Insegnante deve essere pronto, pronta a tutto: a tutto quello che ogni Volto, ogni Sguardo, ogni Pensiero, ogni Storia porta con sé, in sé.
Per questo ho dedicato il mio pensiero a tutti, tutte coloro che mi hanno insegnato a pensare e a contraddire ciò che loro stessi, loro stesse, mi trasmettevano. E lo dedico anche a tutti, tutte coloro che, pur senza cattedra e registri, continuano ad educarmi. E lo fanno con la pazienza e la saggezza e la genialità di chi sa che per essere Insegnante, per essere Educatore, Educatrice, occorre possedere occhi e orecchi attenti, mani disponibili, piedi pronti e un cuore sempre aperto. Sempre. Anche dopo il suono della campanella.
Un sincero augurio a tutti, a tutte coloro che più che fare l’Insegnante, lo sono.
Deborah Biasco