Non è un segreto che la nostra tradizione riveli elementi di sessismo nel matrimonio, ma da dove derivano?
La nostra tradizione sulla cerimonia nuziale prevede che i genitori accompagnino i figli all’altare, in particolare la mamma accompagna lo sposo, prima dell’arrivo della sposa, e il papà accompagna la sposa. Questo simboleggia la famiglia di origine che accompagna i figli verso una nuova vita, la creazione di una nuova famiglia.
Ma se indaghiamo le origini del matrimonio come contratto tra due famiglie in particolare tra il papà della sposa e il futuro sposo – come nell’antica Roma – il percorso della sposa sottobraccio a suo padre si carica della forza sessista nei riguardi della donna che il matrimonio aveva in passato (e in alcuni casi, ancora oggi). Ovvero, la millenaria concezione della donna che va “affidata” da un tutore a un altro.
Come sempre le tradizioni, da un lato rappresentano la tenerezza del momento e il calore famigliare, dall’altro le arcaiche convinzioni sociali sulle quali si regge l’istituzione del matrimonio.
Gli antichi consideravano la donna una creatura irresponsabile, che andava tenuta sotto tutela
“Varium et mutabile semper femina“, ovvero “cosa incostante e mutevole sempre una femmina”, diceva Virgilio nell’Eneide.
Infatti a Roma vi erano due principali tipologie di matrimonio: le nuptiae cum manu e sine manu. Nel primo caso, la donna entrava a far parte della famiglia del marito, divenendo soggetta al potere maritale, il cosiddetto manus. Nel secondo caso invece la donna continuava a essere parte della famiglia del padre e a essere soggetta alla sua potestas. Notiamo come in ogni caso, la donna abbia bisogno di un tutore, sia morale che legale, per essere riconosciuta dalla società.
Tuttavia, già nella prima antichità ha inizio il processo di emancipazione della donna, a partire da Adriano (117-138 d.C.), quando le donne non avevano più bisogno di un tutore per redigere il loro testamento, e i padri avevano perso il diritto di imporre alle figlie un matrimonio o di impedire quello che esse desideravano.
Se indaghiamo l’etimologia del verbo latino emancipare, sopravvissuto ancora oggi, notiamo come esso derivi proprio dall’unione della preposizione “ex” con il sostantivo “manus” di cui parlavamo prima, quindi vuol dire liberarsi dal manus, dall’assoggettamento. Allo stesso modo, si emancipa uno schiavo, un ragazzo che diventa adulto, una donna che si sposa per amore e non per il bisogno di un “tutore”.
Francesca Santoro