La notizia pubblicata dalla NASA lo scorso 19 dicembre mi pare non abbia avuto una grandissima eco, eppure a mio parere avrebbe dovuto. Il comunicato della NASA spiega che per la prima volta sono riusciti a identificare dei microbi nello spazio, cioè a effettuare il sequenziamento del DNA cioè a mettere in ordine le famose quattro basi (adenina, citosina, guanina e timina) per poter leggere i geni che costituiscono il filamento di DNA da utilizzare.
Perché è un avanzamento importante? Perché prima a bordo si raccoglievano dei campioni che poi dovevano essere riportati a Terra per poterli identificare, pensate a quanto sveltirà il lavoro, ma soprattutto pensate in prospettiva a quando fra qualche decennio avremo missioni umane a centinaia di milioni di km dalla Terra, appare subito evidente quanto sarebbe prezioso ottenere subito la risposta se in campioni raccolti ci sia traccia di microbi (perlomeno microbi a noi familiari, con una struttura basata sul DNA).
Una storia avventurosa ha portato a questo passo avanti per la ricerca della vita e l’esplorazione spaziale.
Non so quanto ci sia di romanzato nel racconto della NASA ma la storia dell’esperimento è stata abbastanza avventurosa perché l’astronauta Peggy Whitson, colei che ha materialmente svolto l’esperimento Genes in Space-3 aveva bisogno di tenersi in contatto con la microbiologa Sarah Wallace che era nel centro di controllo, peccato che quella in cui la Whitson doveva iniziare il sequenziamento del DNA fosse proprio la settimana dell’uragano Harvey e che avesse bisogno dell’assistenza della Wallace per utilizzare il minisquenziatore portatile (entra nel palmo di una mano) , con le comunicazioni interrotte dall’uragano il team di terra ha fatto i salti mortali per riuscire a mettere la Whitson in contatto con la Wallace direttamente sul cellulare personale di quest’ultima.
Come si è svolto tecnicamente l’esperimento
Probabilmente saprete che per identificare dei microbi attraverso l’analisi del DNA si passa essenzialmente per tre fasi: la raccolta dei campioni, la reazione a catena della polimerasi (che in pratica consiste nel moltiplicare i frammenti di DNA da analizzare) e il sequenziamento del DNA.
Se la missione si chiama Genes in space 3 un motivo c’è, la reazione a catena della polimerasi nello spazio si era già ottenuta con l’esperimento Genes in space 1. Poi si era realizzato il sequenziatore portatile. Questa missione doveva “solo” mettere tutti questi passi avanti insieme e dimostrare che in effetti tutto il processo dalla raccolta campione all’identificazione genetica dei microbi poteva essere fatta direttamente nello spazio. Ovviamente c’è stata una controprova, la Whitson ha mandato i suoi risultati a Terra e in effetti aveva trovato i microbi che di solito si trovano nei campioni raccolti sulla stazione spaziale internazionale e analizzati a Terra, ma poi i campioni sono stati sigillati e lei stessa li ha riportati a Terra a bordo della Soyuz. I test sono stati quindi ripetuti, più volte per maggiore accuratezza, ottenendo gli identici risultati che la Whitson aveva ottenuto in orbita.
Nota finale rivolta a chi non interessa l’esplorazione spaziale (anche se dubito che sarebbe arrivato a leggere fin qui). appare ovvio come le tecnologie realizzate per questi esperimenti siano il classico caso di tecnologia sviluppata per l’esplorazione spaziale che troverà certo in seguito applicazione nella vita sulla Terra, pensate un apparecchio per effettuare il sequenziamento del DNA che sta comodamente nel palmo della mano quando potrebbe essere utile in caso di emergenze sanitarie in posti sperduti.
Fonte foto: www.nasa.gov
Roberto Todini