È quasi l’alba: i primi raggi del sole già scaldano le spalle delle montagne, ammantandone i profili di un’aura d’oro scintillante. Sul versante ancora in ombra un uomo con un grosso sacco sulle spalle sta risalendo le pendici di una china. Non è solo. Più in alto, svariati metri sopra la sua testa, uno stormo di avvoltoi lo segue volteggiando.
In cima al pendio si trova un letto di pietra largo e liscio, su cui il viandante adagia il suo carico. È la salma di un uomo. Con calma lo scalatore estrae un coltello dalla bisaccia e comincia a lavorare sul corpo, scuoiandolo ed aprendolo per esporre le interiora. Rametti d’incenso e foglie di ginepro vengono accesi attorno alle spoglie, colmando l’aria di un fumo dall’odore intenso che sembra istigare gli avvoltoi. Appena l’uomo fa i suoi primi passi indietro, ecco che lo stormo intero cala sulla carcassa, facendola sparire in una nuvola di piume.
In men che non si dica, del cadavere non rimane che lo scheletro.
L’uomo raggiunge allora i resti del defunto facendosi largo tra i volatili, e con un martello comincia a polverizzare le ossa insieme agli altri avanzi, mischiando il tutto con della farina d’orzo. Solo ora il rito è terminato: l’uomo recupera i suoi attrezzi, si pulisce con l’acqua della sua borraccia e, pazientemente, comincia a ridiscendere il pendio. Alle sue spalle, irrorati dal sole che ora supera i ghiacciai, gli avvoltoi concludono il loro pasto.
Alle orecchie di un occidentale questo potrà sembrare il racconto di un crimine feroce, terribile. Invece, nel vasto plateau himalayano, questo non è altro che il resoconto di un rito che da oltre un millennio caratterizza le pratiche funerarie della cultura tibetana. Si sta parlando, ovviamente, della Sepoltura Celeste.
In tibetano è detta bya gtor (བྱ་གཏོར),་traducibile letteralmente in “sparso dagli uccelli”. La prima testimonianza scritta di quest’antichissima pratica risale, in realtà, solo al XII secolo. Compare all’interno di un noto testo buddhista, il Bardo Tödröl Chenmo (བར་དོ་ཐོས་གྲོལ་ཆེན་མོ་), ossia il libro sulla “Suprema Liberazione con l’Ascolto nello stato intermedio”, che raccoglie informazioni sull’intervallo di tempo che intercorrerebbe tra la morte e la rinascita di un individuo.
Benché sia tipicamente associata al Tibet, la sepoltura celeste è praticata anche in altre regioni dell’area himalayana e nord-asiatica. Di questo gruppo fanno parte le province cinesi del Qinghai, del Sichuan e della Mongolia Interna, quelle indiane del Sikkim e dello Zanskar ed anche alcune aree della Mongolia e del Bhutan.
Esistono due ragioni differenti – una di natura religiosa ed una di natura pratica – che hanno determinato l’affermarsi della Sepoltura Celeste in queste aree:
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Motivi Religiosi
Secondo le credenze del Buddhismo Vajrayāna (una corrente tantrica del Buddhismo Mahāyāna) tutta la realtà percettiva (fisica e mentale) è impermanente e priva di valore intrinseco. Anche l’individuo, il soggetto, non è da considerarsi indipendente, bensì il prodotto delle interconnessioni che caratterizzano il creato. Per questo, una volta perduta l’anima, il corpo non è da considerarsi altro che un guscio vuoto, il lascito di un ente esterno destinato alla reincarnazione.
Un elemento determinante in questo ciclo delle rinascite (samsāra) è rappresentato dal karma, ovvero il principio universale secondo il quale l’adempimento di azioni virtuose condurrebbe ad una reincarnazione positiva. Dunque, essendo la compassione una virtù fondamentale del pensiero buddhista, la decisione di donare il proprio corpo agli avvoltoi risulta chiaramente in profondi benefici karmici.
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Motivi Pratici
Al di là del suo profondo valore religioso, questo rito risponde anche ad inevitabili necessità pratiche.
A causa delle rigide temperature che ghiacciano il terreno, il sotterramento delle salme è pressoché impossibile. In maniera analoga, essendo il Tibet oltre la linea degli alberi, il combustibile necessario per la cremazione è estremamente raro. Vista la scarsa accessibilità di queste opzioni, la Sepoltura Celeste rappresenta la tecnica funeraria più efficiente a disposizione dei popoli del plateau himalayano, e di tutte quelle aree interessate da simili condizioni geo-climatiche che – non ha caso – hanno mantenuto tale sistema.