Cos’è la mitologia?
Tecnicamente, la mitologia è l’insieme delle narrazioni sulle quali una civiltà fonda la sua stessa esistenza e legittima le proprie istituzioni. Da un lato, abbiamo i racconti cosmogonici e teogonici, che narrano la creazione dell’universo e le dinamiche che intercorrono tra le varie sfere del sacro; dall’altro i miti regali ed eroici, che hanno valore eziologico e forniscono gli ideali modelli “etici” di riferimento. Nel loro complesso, i miti forniscono i necessari presupposti per porre in essere l’universo socio-culturale di una civiltà; inoltre ne garantiscono lo status quo, contribuiscono a incanalare le energie di tutti al suo mantenimento e, non di rado, alla sua difesa.
In pratica, la mitologia serve a dare direttive su come vivere?
Tutte le civiltà antiche erano strutturate secondo suddivisioni sociali specifiche, garantite dai racconti mitologici. Se l’investitura del sovrano era legittimata da una perfetta continuità con la regalità divina, il destino degli operai, dei guerrieri, dei contadini, aveva parimenti una spiegazione che affondava nei miti eziologici.
Joseph Campbell accenna a una funzione tanto cosmologica, tanto sociale e psicologica del mito, dove il sistema mitologico legittima l’assetto sociale e gli eroi epici forniscono i “modelli” ideali a cui attenersi.
Puoi farci qualche esempio?
Nel mito antropogonico babilonese, Enki crea l’umanità affinché mantenga in essere gli dèi con il lavoro e con i sacrifici; ma pensiamo anche al dettato biblico “lavorerai con il sudore della tua fronte”. In India, la rigida suddivisione sociale in caste aveva solide basi mitologiche (per esempio le Leggi di Manu). Pensiamo anche ai molti modi in cui nel mondo romano sfera religiosa e civile si compenetravano. O all’uso strumentale che la società militarista giapponese fece dei miti dello shintōismo durante la Guerra del Pacifico.
Ci sono mitologie ancora vive?
Una mitologia è “viva” finché gli uomini cercano in essa una risposta alle loro domande e la società vi trova le proprie basi e il proprio equilibrio.
Ma in molti casi si tende a cercare nel mito e nella tradizione una sorta di identità profonda, un “qualcosa” che legittimi la nostra forma mentis e ci dia degli strumenti per opporci e resistere alla società moderna, percepita come povera di valori e di punti di riferimento.
Non è certo un mistero che, nei momenti di crisi, molte persone finiscano con il cercare una “identità” nelle proprie radici culturali, tornando quindi ai valori mitologici, religiosi e tradizionali.
Per esempio, c’è chi si appella alle “radici cristiane” d’Europa, e chi invece rifiuta il cristianesimo in nome di più “autentiche” radici pagane. Eppure l’Europa che conosciamo presenta un intreccio inestricabile tra mondo classico, cristiano e barbaro; senza considerare gli apporti fondamentali del Rinascimento, dell’Illuminismo, del pensiero scientifico e della filosofia moderna.
Mi sembra una confusione quasi insanabile, o sbaglio?
Chi persegue il pensiero tradizionale, conferisce alla “tradizione” uno status ontologico: presume, cioè, che un certo insieme di norme e valori – mitologicamente legittimati – abbiano natura trascendente rispetto al mondo. È facile sentire appassionati di cultura vichinga parlare di valori come “coraggio” o “onore”; o chi abbraccia forme di sciamanesimo porre particolare attenzione su una metafisica della natura. Ma tutti i gruppi che si riconoscono in qualche “radice” hanno la loro scala di valori irrinunciabili. Ogni civiltà presume che la propria mitologia sia stata trasmessa ab origine.
Ma ciò a cui assistiamo, consultando i documenti, è che la tradizione viene riscritta ogni volta che la società si trasforma.
Una specie di paradosso, dunque?
Queste dinamiche sono ben descritte in un libro memorabile, L’invenzione della tradizione (a cura di Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger, Einaudi, 1987).
Ogni mitologia che conosciamo non andrebbe vista come un sistema compiuto e perfetto, bensì come una fase dentro un continuo processo di sviluppo e trasformazione: e a volte, anzi, come una sovrapposizione di elementi appartenenti a fasi diverse. Come il cristianesimo ha riattualizzato feste preesistenti, così i miti nordici e celtici traboccano di elementi cristiani.
La mitologia comparata ci mostra continuamente come le divinità e i miti vengano ripensati, reinterpretati, trasformati, travisati. E spesso gli dèi di una civiltà diventano i demoni della cultura successiva.
Cosa pensi dell’approccio alla mitologia dei gruppi neopagani?
Vi sono molti gruppi pagani assai preparati dal punto di vista filologico, consci che la nostra conoscenza delle antiche mitologie è, nel caso migliore, una ricostruzione piena di buchi. Nel corso dei secoli, infatti, non solo il nostro mondo è cambiato e i nostri valori sono differenti, ma anche il nostro stesso cervello ragiona in modo diverso. Un conto è vivere tutta la vita in un mondo prescientifico, privo di elettricità, occhiali, aspirine e tutto il resto. Un altro è pretendere di fare il vichingo o lo sciamano nei fine settimana, e con lo smartphone a portata di mano.
Ogni pretesa di ritorno a una tradizione antica è necessariamente una sua reinvenzione. Reinvenzione fatta a partire dai nostri presupposti e pregiudizi, e con la quale si tende ad avallare ciò in cui crediamo già.
In tal modo, l’uso della mitologia diviene strumentale all’identità che noi attribuiamo a noi stessi.
Secondo te, la mitologia può essere strumentalizzata?
Proprio perché il mito finisce col supportare e giustificare i nostri preconcetti, ci rende facili strumenti di chi è capace di far risuonare i giusti simboli al momento appropriato. In un certo senso, possiamo vedere un sistema mitologico come un complesso di memi che contribuisce a costruire la nostra identità, fissare la nostra scala di valori e determinare il nostro comportamento. Tali “complessi memici” sono di solito funzionali alle civiltà legittimate dai rispettivi sistemi mitologici, ma possono anche essere facilmente strumentalizzati. La storia è piena di leader religiosi o politici che, appellandosi a un qualche sistema di valori “tradizionali”, riesce a utilizzare la mitologia per incanalare le energie sociali verso i suoi scopi. Da qui, l’importanza di educare il nostro senso critico e di costruire un’etica autonoma.
Quindi non ha senso ritornare alla mitologia?
A questa domanda non posso che dare una risposta personale. Poi ciascuno è libero, e guai se non fosse così, di seguire la propria strada.
Per me la mitologia è soltanto una bellissima materia di studio: la comparazione tra i miti c’insegna molte cose sulla preistoria dell’uomo, sui suoi valori religiosi, sociali e culturali. Ci spiega come pensiamo a livello profondo e ciò di cui abbiamo bisogno psicologicamente.
Ma allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare chi siamo e quanta strada abbiamo fatto per arrivare fin qui.
Lo sviluppo del pensiero razionale e la scienza, per esempio?
Esatto. Nelle nostre “radici” non ci sono solo le mitologie tradizionali. Ci sono anche Galileo, Newton ed Einstein, ci sono il metodo scientifico e la filosofia della scienza. Abbiamo messo a punto strumenti che possono aiutarci a non cadere nelle metafisiche e nelle trappole del linguaggio, e a costruire etiche autonome fatte su misura per le nostre esigenze.
Con questo non propongo di dimenticare i miti che ci hanno accompagnati nel corso della nostra storia culturale. Quei racconti antichissimi contengono un’infinità di spunti meravigliosi che possiamo ripensare in mille modi, e far nostri. Ma io credo che, più che rimpiangere un’età aurea proiettata nel passato, dovremmo sforzarci di costruirne una nuova di zecca nel futuro.
Qual è a tuo parere la più bella delle mitologie?
Ah, bella domanda, stante che le amo tutte! Penso che non si possa studiare un corpus mitologico dal di dentro. Perché nessuna civiltà umana – con buona pace degli identitaristi – è un mondo isolato. Al contrario, ogni civiltà ha dialogato con tutte le altre. Se adori la mitologia scandinava, allora devi analizzare tutte le mitologie che hanno scambiato con essa idee, narrazioni e concetti; devi cercare di capire la direzione degli apporti e il modo in cui le differenti ideologie li hanno alterati. Molti racconti del ciclo di Thórr e Loki presentano strette affinità con miti slavi e del Caucaso; la cosmologia nordica mostra continuità con quella del mondo turco-altaico; e la sua escatologia attinge a piene mani all’apocalittica cristiana. Se non si apre lo sguardo al mélange di tutte le culture, il nostro studio rischia di essere autoreferenziale.
Claudia Maschio