Qualche settimana fa, una puntata di Italian Tabloid, “serie” nata dalla collaborazione tra LaEffe e La Repubblica, uno degli economisti italiani delle scienze sociali più affermati, quale Federico Rampini, raccontava la New Economy, a partire dall’osservatorio americano, tra sviluppo economico, forza reazionaria e globalizzazione, fino ad arrivare alle bolle finanziarie e alle crisi transnazioni, passando in rassegna il passato e il presente e cercando un comune denominatore che portasse al “senso” e potesse in qualche modo fornire delle risposte per il futuro.
In netta contrapposizione, in quegli stessi giorni, la prima prova di maturità vedeva tra le tracce proposte un saggio di letteratura atipico. Non parliamo di quella atipicità socialmente riconosciuta, semplicemente di un saggio inaspettato: il valore della letteratura, a partire da Umberto Eco, scomparso lo scorso febbraio. Ancora una volta la ricerca del “senso”.
In questi giorni, la moltitudine degli eventi, in un’interconnessione ai limiti dell’assurdo, ha rimandato a quella strana accoppiata di sentimenti e cinica realtà, nella considerazione di quanto la mano possa essere, ed il racconto della quotidianità, uno strumento sconnesso dai sentimenti.
Mettere in ballo la verità, la cruda cronaca, diviene delle volte uno strumento da tecnici, almeno all’apparenza. E tuttavia la scrittura, e la conseguente lettura, è frutto dell’empatia più intima che si crea tra chi non ha occhi semplicemente per guardare, ma l’animo di andare oltre un semplice costrutto fraseologico, cercando la nuda penna che è in fondo l’anima dell’autore.
La finanza, la New Economy, ripescando la puntata sopracitata, in questi termini diventano La Terra Desolata di Eliot, che in un orizzonte di diseguaglianza sociale dà spazio a quegli ultimi romantici di trovare il senso della vita e del futuro, fare un viaggio al termine dell’errore e riscoprire nuovi inizi, quasi a voler dar forma a un’Odissea diversa, senza eroi oltretempo, solo uomini comuni la cui nostalgia, nel significato greco del termine, quella di nostos algos, della sofferenza provocata “dal desiderio inappagato di ritornare”, è rivolta al semplice romanticismo perduto.
La realtà cruda delle immagini si riverte in parole altrettanto dure, ove la visione della violenza non diviene un deterrente, ma quasi un input, un’unità di immissione alla guerra. Un rito verbale dalle sembianze spaventose, un mostro che segue l’impulso del momento.
Qui ricorre il senso della letteratura, letteratura che è scrittura, che è racconto e, da tale può divenire anche il cronologico percorso metaforico degli eventi della quotidianità, dando così un senso diverso a ciò che ci circonda, facendoci dimenticare le immagini che ci rendono crudi interpreti del mondo, ma nudi protagonisti di una vita all’insegna dell’empatia e della capacità di emozionarsi.
Scrive Proust che “ogni lettore, quando legge, è soltanto il lettore di se stesso. L’opera dello scrittore non è altro che una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di scorgere ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso. Il riconoscersi del lettore in ciò che il libro dice è la prova della verità diquesto”.
La scelta dei libri non è casuale e le righe all’interno della quale noi ci perdiamo non sono altro che quelle che più rispecchiano la nostra intimità, il nostro io, con tutti i desideri e i timori che ne fanno parte. All’interno della letteratura noi troviamo quella parvenza di umanità che nella quotidianità dimentichiamo o tralasciamo. Specie nelle considerazioni repentine al momento successivo alla tragedia.
Ma non è un mondo che ripudia i propri sentimenti che porterà alla salvezza, che disconosce l’umanità di fronte ad un istinto primordiale privo di ogni senso.
La vita è arte, che è a sua volta verità, la quale deve in ogni modo portarsi dietro quel minimo di raziocinio che le consente di non configurarsi come una misera bugia dimenticata dal tempo.
Ritrovare il senso, tra la realtà e la narrativa, è il vero viaggio.
Riscoprirsi persone la cui vita non è una frase pregna di odio, scritta nell’euforia di un momento su un social, ma quella che vorremmo leggere e che al meglio vada a configurare la nostra essenza. Quella che è lo specchio dove vorremo trovare noi stessi.
Creatività, non distruzione.
Di Ilaria Piromalli