Il senso dell’attesa in Vermeer e Proust

Il mondo di Vermeer è ovattato, avvolto da un’atmosfera silente, discreta, di attesa senza esito. Spazi rarefatti, interni domestici, suoni sordi caratterizzano le sue rappresentazioni, calme e ossessive variazioni di un’unica realtà, l’universo del silenzio. Corpi e oggetti immersi in un liquido immateriale vischioso, dal quale la luce si profonde. Il tempo si arresta.

Fonte: it.wikipedia.org
Fonte: it.wikipedia.org

Queste peculiarità del pittore sono state oggetto di interesse per lo scrittore francese Marcel Proust. Egli nel suo capolavoro “Alla ricerca del tempo perduto” respira le atmosfere di Vermeer. I suoi interni comunicanti, il senso della sospensione temporale, i suoni attutiti. Entrambi si affidano a quel silenzio. Proust nei suoi scambi epistolari cita l’artista e accoglie il suo sentire, prendendone ispirazione, secondo lo studioso Giovanni Macchia.

L’adesione alla rivelazione che la bellezza sia un enigma. La monotonia e la ripetitività dei soggetti tesi a suggerire un’unica realtà, come frammenti di uno unico corpus. L’impressione del colore che rende suggestiva e densa di mistero l’atmosfera del quadro. Un silenzio che filtra intellettualmente e catapulta le figure in una dimensione parallela. Questo processo affascina Proust che cercherà di coglierne l’essenza. Giovanni Macchia sostiene che lo scrittore ne sarà influenzato.

In particolare l’episodio della morte di Bergotte, all’interno del romanzo, è scaturito da uno stato d’animo dell’autore durante una visita a una mostra di quadri del pittore. Oramai malato, subisce la fascinazione di quelle tele silenziose, di quella sensazione di una ineluttabilità. Una irresistibile attrazione verso il nulla.

Nelle sue stesse parole Proust sottolinea come i soggetti delle rappresentazioni di Vermeer siano simboli: stessa donna, stesso tavolo, stessa unica e nuova bellezza.

Un’affinità elettiva quella tra Proust e Vermeer. Lo scrittore assorbe il suo essere e lo contestualizza nel suo mondo e nel suo operato.

Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli, si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, perché lo si avverta, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo”.

 

 

Costanza Marana 

 

 

 

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