Senegal a ferro e fuoco: la rabbia di una generazione

Senegal

È ormai trascorsa quasi una settimana dall’inizio delle manifestazioni a Dakar, capitale del Senegal, propagatesi per tutta la nazione e perfino in alcune città europee. Dopo giorni di scontri con le forze armate, guerriglia urbana e saccheggi si contano già cinque morti, l’ultimo dei quali un ragazzo di appena 14 anni, e centinaia di feriti. Si tratta di una situazione insolita per il Senegal, una nazione africana a lungo considerata tra le più stabili proprio per le pacifiche transizioni politiche avvenute nel paese fin dall’indipendenza nel 1960.

Gli avvenimenti di questi ultimi giorni, però, raccontano una storia diversa: la storia di un sistema democratico imposto che di stabile ha avuto ben poco, di un paese in cui un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà e, soprattutto, di una generazione stanca e arrabbiata che desidera emanciparsi da un passato ingombrante.

L’arresto di Sonko e gli scontri  

Le proteste sono iniziate mercoledì 3 marzo a seguito dell’arresto di Ousmane Sonko, uno dei più seguiti oppositori politici del governo del presidente Macky Sall, accusato di stupro ma arrestato preventivamente per “disturbo della quiete pubblica” mentre si recava in tribunale per rispondere di tale incriminazione. Centinaia di manifestanti, in gran parte giovani, sono scesi nelle strade per contestare l’incarcerazione, che ritengono pilotata dal presidente Sall con lo scopo di infangare i propri avversari politici. Infatti, il partito politico di cui Sonko è il leader, Pastef – Les Patriotes, era arrivato terzo alle elezioni del 2019 ed era tra i favoriti per le prossime elezioni previste per il 2024.

Durante le manifestazioni i dimostranti hanno attaccato diversi punti sede di attività filogovernative come la Radio Rfm e il giornale Le Soleil, ma anche luoghi simbolo del potere politico e governativo. Tra questi, hanno dato fuoco a pompe di benzina Total, a supermercati Auchan e ad autostrade Eiffage, punti apparentemente casuali ma che hanno tutti in comune un collegamento diretto con la Francia e con il peso che la sua influenza ha ancora oggi.

Ecco che la rabbia che sta guidando i giovani senegalesi in rivolta rivela di avere radici antiche: già stremati dal contesto economico, ulteriormente aggravato dalla pandemia, che ha spinto moltissimi giovani ad abbandonare il paese rischiando la vita lungo la tratta per l’Europa, questa generazione si trova ad affrontare l’incertezza del futuro portando sulle spalle il peso del tracollo di un governo postcoloniale che non intende più sopportare.

La crisi democratica in Senegal   

Nella storia del governo Sall l’arresto di Sonko non è il primo caso di fermi e incarcerazioni ambigue. Nel 2019 sia Karim Wade, figlio dell’ex presidente, che Khalifa Sall, popolare sindaco di Dakar, sono stati arrestati con l’accusa di corruzione e appropriazione indebita, rimanendo esclusi dalla corsa alle prossime elezioni.

Al di là dell’arresto di Sonko, i manifestanti hanno protestato anche contro l’eccessiva autorità del presidente e l’incompetenza del suo governo. Macky Sall è in carica dal 2012 a seguito della vittoria sull’ex presidente Abdoulaye Wade, contestato per aver spinto per un terzo mandato nonostante la costituzione senegalese ne preveda al massimo due. Oggi sembra essere lo stesso Sall a desiderare di rimanere al potere per un ulteriore mandato, andando apertamente contro le regole democratiche del paese e la stessa volontà dei suoi sostenitori.

Difatti, la vittoria di Sall nel 2012 è stata possibile soprattutto grazie all’appoggio di moltissimi giovani ora in rivolta, tra cui il movimento “Y’en a Marre”, gruppo composto da rapper e giornalisti sorto nel 2011 per ribellarsi contro la corruzione del governo Wade. Tra i molteplici arresti degli ultimi giorni figurano anche lo stesso fondatore di “Y’en a Marre” e diversi suoi compagni, fermati per aver preso parte alle manifestazioni.




Gli avvenimenti degli ultimi giorni in Senegal hanno avuto il merito di rendere evidente come si sia aperta una profonda crisi democratica nel paese che, pur essendo stato considerato un perfetto esempio di democrazia africana, ha celato al suo intero numerosi problemi legati all’abuso di autorità e restrizioni alla libertà di espressione. Ultimi esempi di ciò sono l’oscuramento di due emittenti televisive, Sen TV e Walf TV, accusate di fomentare violenza e sommosse per aver mostrato pubblicamente le immagini delle proteste e le limitazioni imposte dal governo all’uso dei social come Facebook, WhatsApp e YouTube, centrali nell’organizzazione delle manifestazioni.

Le dichiarazioni delle autorità governative senegalesi e gli ultimi aggiornamenti

Nonostante lo scalpore provocato a livello internazionale, il governo del Senegal ancora non si è pronunciato chiaramente in merito agli scontri e alle proteste che da giorni stanno mettendo a ferro e fuoco il paese. L’unica dichiarazione è stata da parte del ministro dell’Interno Antoine Felix Abdoulaye Diome che ha indicato le manifestazioni come insurrezioni organizzate paragonandole ad atti di terrorismo.

L’8 marzo il Movimento per la Difesa della Democrazia (M2D) aveva annunciato tre giornate di contestazioni. Nel tardo pomeriggio del 9 marzo l’M2D ha informato il popolo senegalese che le proteste previste per il 9 e 10 marzo sono sospese, indicendo una conferenza stampa alle ore 17 presso la sede del Pastef, con l’intenzione di riaffermare le contestazioni e portare avanti le proprie istanze, incluso il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici.

Nel frattempo, sono numerose le dichiarazioni internazionali di solidarietà con i manifestanti. Tra queste, Reporters sans Frontières e Amnesty International si sono apertamente schierati contro le censure e le limitazioni alla libertà di stampa e di espressione, chiedendo al governo di mettere un freno all’uso della violenza e agli arresti illegittimi.

Marta Renno

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