Seham Sergiwa è una deputata libica rapita il 17 luglio di due anni fa dopo aver rilasciato un’intervista contro il generale Haftar. Dopo due lunghi anni, non si sa ancora nulla sulla sua fine.
Libertà. Una delle parole nel nostro Paese più utilizzata, ancor di più negli ultimi anni, nel corso dei quali la pandemia da COVID-19 ha fatto sì che moltissime persone si ergessero a paladine di un termine e un concetto di cui, spesso, il significato è sconosciuto ai più. Libertà di manifestare per cause discutibili, come quelle dei no-vax, libertà di strumentalizzare tragedie storiche come l’Olocausto per gridare al complotto e alla tortura, libertà di esprimere qualsiasi opinione, anche al di fuori di ogni logica, anche pericolosa, anche immorale. Libertà. Se ne parla spesso, ma troppo poco spesso se ne conosce il valore, che soltanto chi davvero è privato di quella libertà può comprendere. La libertà di espressione, formalmente sancita nel 1948 nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi, afferma che:
Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.
Non è quello che avviene in Libia, dove il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero può portare perfino alla morte. Pensiamo proprio a Seham Sergiwa, parlamentare libica della quale non si hanno più notizie dal 17 luglio 2019, quando venne rapita. Durante quella notte, numerosi uomini armati con il volto coperto entrarono nella sua casa a Bengasi, portandola via con la forza. Secondo i media locali, si tratterebbe di un gruppo armato chiamato “Awliya al-Dam” che, durante l’incursione, sparò e ferì ad una gamba il marito della donna, Ali, per poi picchiare selvaggiamente il figlio sedicenne della coppia.
A due anni dal tragico avvenimento, di Seham Sergiwa non si sa nulla, e tutto ciò che resta sono supposizioni e terribili timori, trasformati quasi in certezza. Si pensa, infatti, che il sequestro sia stato messo in atto da forze vicine a Khalifa Haftar, leader della Cirenaica e a capo di Lybian National Army. La donna potrebbe essere stata sottoposta a torture, violenze, stupri, se non addirittura essere uccisa. E per cosa? Per aver deciso di essere libera, nella sua lotta per i diritti umani e nella sua determinazione ad esprimersi. Inquietante, in effetti, la coincidenza di ciò che accadde poche ore prima del rapimento. In quella stessa giornata, Seham rilasciò un’intervista televisiva a un’emittente pro Haftar, nella quale criticò gli estremisti vicini al generale. In tale occasione, chiese che nel nuovo governo di unità nazionale venissero inclusi anche i Fratelli musulmani. Un vero e proprio affronto, in considerazione del fatto che Haftar li considerasse i suoi peggiori nemici.
Ma chi è Seham Sergiwa? Deputata del Parlamento di Tobruk, eletto nel 2014 e riconosciuto dalla comunità internazionale. Laureata in psicologia clinica conseguita al Kings College di Londra. Leader di un piccolo partito da lei fondato, il Moderate Lybian Movement, per sostenere i diritti umani in Libia, anche quelli dei migranti rinchiusi nelle prigioni spesso simili a lager, e la partecipazione delle donne alla sfera pubblica. Una persona dai principi saldi, pronta a dire sempre ciò che pensa, e che da tempo criticava i sanguinosi attacchi dell’esercito di Haftar a Tripoli. Una libertà che dovrebbe essere universalmente garantita, ma che ha, invece, drasticamente segnato la sua fine. Sulla facciata della casa, dopo il rapimento, apparve un’inquietante e inconfondibile scritta: “the army is a red line”, ossia “l’esercito è una linea rossa”. Un chiarissimo avvertimento che allude a quanto possa essere pericoloso criticare Haftar e, in generale, quanto sia pericolosa la libertà in un luogo come la Libia.
La Missione ONU per il Sostegno in Libia (UNSMIL) aveva espresso grande preoccupazione per la sparizione della deputata, e aveva chiesto alle autorità libiche di accelerare le indagini, lanciando anche l’ennesimo monito sulle sparizioni di persone a causa di divergenze politiche. Anche l’Ambasciata Italiana a Tripoli, così come la delegazione UE, dichiararono preoccupazione per la sua sorte. Da allora, però, di Seham Sergiwa non si hanno più notizie. Per di più, il rapimento di Sergiwa non ha suscitato in Italia alcuna interrogazione parlamentare ed è stato quasi totalmente ignorato dal mondo dell’informazione. E, mentre in un Paese come il nostro si rimane impassibili e indifferenti ad avvenimenti di tale portata, le ingiustizie e la negazione di ogni diritto umano continuano a verificarsi incessantemente. Dal 2014, sono stati frequenti gli attacchi contro individui basati sulla loro loro affiliazione politica e sul loro attivismo, reale o solo supposto: attivisti, giornalisti e difensori dei diritti umani hanno dovuto affrontare crescenti restrizioni, minacce, sparizioni e uccisioni, il tutto per mettere a tacere le voci di dissenso. Quello di Sergiwa, infatti, non è certo l’unico caso.
Sempre a Bengasi, ad esempio, il 10 novembre 2020 viene uccisa, in pieno giorno, Hanan al-Barassi. In centro città, in un pomeriggio qualunque, tre suv con i vetri oscurati irrompono, e due uomini con il volto coperto tentano di rapirla, poi la colpiscono con tre colpi di arma da fuoco alla testa, lasciandola morire sotto lo sguardo terrorizzato di sua figlia. Hanan al-Barassi aveva 46 anni ed era anche lei un’attivista e avvocatessa impegnata nella lotta per i diritti umani e quelli delle donne. Anche lei aveva denunciato sui social la corruzione e gli abusi di potere di diverse personalità affiliate al generale Haftar, la sua gestione del potere e la violazione dei diritti umani nella parte orientale della Libia. Anche lei, come Seham Sergiwa, era una donna che ha pagato con la vita il suo coraggio e il suo grande desiderio di giustizia.
Ancor prima, il 25 giugno 2014, l’attivista per i diritti umani e avvocatessa Salwa Bugaighis è stata assassinata nella sua casa poche ore dopo aver votato alle elezioni parlamentari. A questo assassinio è seguito quello dell’ex membro del Congresso di Derna Fariha Al-Berkawi il 17 luglio 2014 e dell’attivista per i diritti umani Entisar El Hassari il 24 febbraio 2015. In un sondaggio condotto da LFJL su 163 intervistati, il 96% ha affermato che la violenza online contro le donne, spesso seguita da aggressioni fisiche, è un problema serio in Libia, e oltre due terzi ha dichiarato di essere stato vittima di questi attacchi. Gli obiettivi principali sono, appunto, donne che esprimono opinioni online, attivisti, difensori dei diritti umani e donne impegnate in politica. Il ministro degli esteri libico Najla El-Mangoush è stato oggetto di abusi dopo aver chiesto ai mercenari di lasciare il paese, e diverse donne membri del Forum di dialogo politico libico hanno dichiarato a LFJL che frequenti minacce e abusi hanno minato la partecipazione delle donne alla vita pubblica. Nelle elezioni del 2012, infatti, le donne rappresentavano il 45% di tutti gli elettori, ma questo numero è diminuito lentamente e inesorabilmente nelle elezioni successive, fino a raggiungere il 39%.
Un governo che agisce nell’omertà, nella paura, nell’impunità dei propri misfatti. Persone scomode punite con la morte, fatte sparire nel nulla, vittime di un sistema corrotto e oppressivo in cui nessuno indaga e i casi vengono archiviati per mancanza di prove. Un sistema in cui un uomo come Haftar, ministro della Difesa e capo di Stato Maggiore del governo cirenaico, si macchia di delitti al di fuori di ogni diritto umano e internazionale, in un sistema che fa del silenzio e dell’indifferenza la sua arma migliore. Questi avvenimenti dovrebbero farci indignare, dovrebbero farci urlare, protestare, pretendere la libertà e il rispetto, non solo di parola, ma prima di tutto del nostro essere umani.
Proprio l’incapacità di indagare sugli attacchi contro uomini e donne, di punire i responsabili, di cercare e ottenere verità e giustizia per le vittime e le loro famiglie ha promosso una cultura di impunità, in cui le violazioni dei diritti umani continuano incontrollate in tutto il paese. Mentre la Libia è vicina alle elezioni del 24 dicembre 2021, sarebbe allora importante agire per porre fine al ciclo di violenza e creare un ambiente in cui tutti si sentano al sicuro, come ha affermato anche il direttore di LFJL, Elham Saudi:
È fondamentale che gli attacchi e le minacce contro coloro che parlano pubblicamente siano indagati e i responsabili siano ritenuti responsabili. Senza giustizia per Seham Sergiwa e altre vittime delle violazioni dei diritti umani, qualsiasi processo politico volto a stabilire una pace sostenibile in Libia sarà fondamentalmente imperfetto.
Roberta Mazzuca