Senza troppi giri di parole, ci saranno 1,6 miliardi di lavoratori che rischiano il proprio lavoro. Questo il dato drammatico apparso su un documento ufficiale dell’Oil, l’agenzia dell’Onu che si occupa del lavoro, il 29 aprile scorso, relativo alle indagini sulle conseguenze del Coronavirus. L’organizzazione mondiale ha redatto un paper in cui si spiegano anche i perché di queste cifre, concentrandosi però anche su un lato leggermente meno duro della medaglia. Il lavoro si può – e si deve – ripensare. Eppure, nonostante si possa trovare un punto di speranza fra queste cifre, il computo è impressionante. Metà delle persone nel mondo saranno senza lavoro.
Il paper redatto dall’Onu spiega inoltre che questi lavoratori che perderanno la capacità di sostenersi economicamente, sono operativi nel sistema dell’economia informale. Questa struttura lavorativa consiste nell’essere dipendenti di un impiego senza sistemi di assicurazioni, mediche o sociali, e quindi, scoperto da ogni punto di vista. Secondo l’Onu, questa categoria di lavoratori comprende in totale 2 miliardi di persone, il 61% dei dipendenti di tutto il mondo.
Senza lavoro in più di 1,6 miliardi, una stima spaventosa nell’economia informale
A causa del Coronavirus, l’economia mondiale sta subendo un buco storico, di complicato riassestamento nei prossimi mesi. E oltre alle aziende e ai loro proprietari, a risentirne sono (e saranno) soprattutto i dipendenti. Questi rimarranno senza lavoro nei prossimi mesi, come molti lo sono già da alcune settimane. In questo sistema, 1,6 miliardi di lavoratori probabilmente perderanno il proprio impiego e, quindi, la loro unica fonte di guadagno. Praticamente, secondo il documento dell’Oil, l’80% della popolazione lavorativa informale mondiale è coinvolto direttamente nella crisi da Coronavirus. Il rischio per queste persone è di scendere in povertà e di non avere più una fonte di guadagno stabile.
Su 3,3 miliardi di lavoratori, quelli dell’economia informale sono i più a rischio, e l’Oil indica nell’Africa e nell’intero continente americano le aree più in difficoltà. La maggior parte dei lavoratori coinvolti sono abitanti di aree a basso reddito, come l’Africa, dove c’è un 81% di personale lavorativo coinvolto. In paesi ad alto reddito, la cifra è del 76%.
Ma questo può essere un punto di partenza
La drammaticità del dato è inconfutabile. Già in Italia stanno emergendo notevoli difficoltà per quel che riguarda il sostegno economico ai lavoratori in nero o agli immigrati, rimasti senza lavoro. Ma questo, secondo la stessa Onu, può essere un punto di partenza per ripensare il sistema del lavoro.
Alla presentazione pubblica del paper dell’Onu, il direttore generale dell’agenzia mondiale, Guy Ryder, ha parlato anche di questo.
“Si dice comunemente che questa pandemia non discrimina, e in termini medici è giusto. Ma in termini economici e sociali lo fa, e anche in modo marcato. Nel post epidemia dobbiamo costruire un mondo del lavoro nuovo, non basato sul precariato”
Riccardo Belardinelli