Un tempo la scuola era considerata l’ascensore sociale per eccellenza, il mezzo ideale per uscire da una condizione di marginalità, ma a giudicare dai dati più recenti sembra che oggi le cose stiano diversamente.
Anzi, la povertà va di pari passo con il fallimento dell’offerta formativa: al milione e mezzo di ragazzi che vivono in condizioni d’indigenza la scuola offre molto poco non solo in termini di lotta alla dispersione e canali di socializzazione, ma anche di biblioteche, palestre, laboratori. E così il percorso didattico rischia di diventare un cammino in cui le disuguaglianze, anziché diminuire, si accentuano.
Il IX Atlante dell’infanzia a rischio curato da Save the Children mostra come a Roma e a Genova il 70% dei ragazzi abitino all’interno delle periferie; a Palermo e a Napoli il 60%, mentre a Milano la cifra s’attesta intorno al 43. Spazi di disagio, non-luoghi spesso mal serviti e mal gestiti in cui il degrado urbano si mescola a quella testarda voluttà amministrativa che tende ad ammassare i problemi sociali verso i confini delle metropoli.
Posti in cui mancano il verde, le aree ricreative, le oasi pensate per giocare e socializzare, non di rado piagati da fenomeni come l’inquinamento delle strade, l’illuminazione inadeguata e la criminalità diffusa. E, guarda caso, a Roma nei quartieri residenziali i laureati sono quattro volte quelli che si riscontrano nelle zone prossime al raccordo.
E’ infatti nei quartieri più vulnerabili che si cela il più alto numero di NEET (“Not in Education, Employment or Training”), i ragazzi che non vanno a scuola, ma neppure lavorano né frequentano corsi di formazione, tant’è che a Milano il principio è il medesimo: in zona Tortona i NEET sono il 3,6%, a Triulzo Superiore il triplo (14,1%). Dati che appaiono confermati da quelli INVALSI, i quali hanno rivelato un profondo divario tra Nord e Sud Italia cui corrisponde quello tra studenti del centro e delle periferie, fenomeno questo trasversale che si riscontra da Napoli a Genova.
Piagata dall’abbandono precoce, salito al 14,5%, e da un abbassamento generale dell’offerta formativa, la scuola è in condizioni d’allarme: oltre 800 mila studenti su circa 7 milioni l’hanno lasciata prima del tempo negli ultimi tre anni.
Un fenomeno che interessa soprattutto gli alunni che frequentano le medie e il primo biennio delle superiori. L’istituto cerca d’intervenire con i mezzi che ha, spesso sporge denuncia, ma non sempre riesce a sensibilizzare le famiglie e a convincere i ragazzi a tornare. Bisognerebbe correre ai ripari, invece in Italia la spesa per l’istruzione prevista per il 2020 è pari solo al 3,5% del PIL, più di un punto sotto la media europea (circa il 4,7%).
E’ dai tagli al bilancio che provengono le maggiori difficoltà affrontate da presidi e docenti, a cominciare dai maxi-accorpamenti pensati per il risparmio. Un solo dirigente, una sola segretaria e meno personale per un enorme istituto comprensivo composto magari da sette o otto plessi, a volte anche molto distanti tra loro, impossibili da gestire in termini di risorse e anche sul piano organizzativo. A volte i soldi dello Stato non bastano neppure per la carta igienica, figurarsi per quella delle fotocopie, e le famiglie sono costrette ad autotassarsi, andando così ad accrescere il divario sociale.
Insomma: più i bambini sono poveri, meno la scuola funziona. Eppure è proprio nelle zone più piagate dal disagio sociale che un tempo l’istruzione diveniva la via d’uscita per eccellenza, nell’Italia del Dopoguerra e del boom: che cosa è successo dopo, tra una riforma e l’altra e soprattutto tra un taglio e l’altro?
Camillo Maffia