Quante volte, dinanzi ad un proprio fallimento, abbiamo creduto di non essere abbastanza o, addirittura, di essere incapaci di gestire la nostra vita? Probabilmente, almeno una volta, è successo ad ognuno di noi. Questo è uno, tra i tanti motivi, che ha spinto Francesca Corrado a creare la prima Scuola di Fallimento in Italia.
Il progetto della Scuola di Fallimento raccontato dalla fondatrice
L’idea è nata da una riflessione personale di Francesca Corrado sulla sua percezione di errore e fallimento, e sul suo tentativo di agire inseguendo la perfezione ma, soprattutto, dalle lezioni che la vita le ha offerto.
Salve Francesca, piacere di conoscerla. Com’è nata in Lei l’idea del progetto Scuola di Fallimento?
«Salve a tutti. Il mio apparente annus horribilis è stato il 2015: ad un tratto non avevo più né una società, che è stata liquidata, né una cattedra in università, a causa di mancanza di fondi, né un compagno, per una chiara, a posteriori, incompatibilità. Quando perdi, quasi tutto nello stesso istante, la sensazione è quella di essere caduta in un burrone profondissimo.
Tuttavia, è stata la malattia di mio padre, l’Alzheimer, che mi ha aiutata a capire che a volte bisogna cambiare la prospettiva con cui si guarda alla vita e ai propri errori. A volte ci sono cose che si dimenticano per sempre, come la sua memoria, e cose che si possono riconquistare o ridisegnare come i miei progetti di vita e di lavoro. Da questo momento ho iniziato a chiedermi se la mia esperienza potesse essere di aiuto agli altri, e se ci fosse un modo non solo per apprendere dagli errori altrui, ma anche dai propri errori in modo da non ripeterli, dando vita alla Scuola di Fallimento».
Difficoltà dopo difficoltà Francesca Corrado comprende che queste sue esperienze apparentemente del tutto negative, potessero essere le fondamenta per un nuovo inizio; così nasce, a giugno del 2017 a Modena, il progetto Scuola di Fallimento. È lei stessa a spiegarci le motivazioni della scelta di questo nome:
«Ho sempre pensato che fosse necessario in qualche modo sdoganare la parola fallimento, perché il fallimento è vissuto come marchio indelebile e l’errore considerato uno stigma sociale invalidante.
Prima di capire se la mia idea potesse o meno funzionare ponevo a quelli che incontravo questa domanda: «Ma tu verresti mai alla Scuola di Fallimento?». Le risposte erano o entusiasmo o repulsione: «Ma certo! Con tutte le volte che ho fallito, potrei addirittura fare il docente» – «Assolutamente no! Non parlarmi di fallimento».
In questa polarità ho colto due diversi bisogni: Normalizzare la realtà, fatta per lo più di errori, deviazioni ed insuccessi, e superare un vero e proprio tabù, assumere che il nome di una cosa equivale alla cosa stessa, per cui se dico la parola fallimento domani fallisco. Non è un caso che in molti corsi mi chiedono di sostituire nel titolo la parola fallimento con errore perché, per loro, è più soft».
Secondo Lei cosa significa fallire e da cosa nasce la paura di sbagliare?
«Il più delle volte il fallimento è visto nella sua accezione da dizionario, come mancanza di successo. Ma, spesso, il termine va oltre la mera definizione giuridica e assume un significato simbolico che investe la persona e la sua identità. Non si nasce con la paura di sbagliare, per cui diciamo che fino ad una certa età abbiamo, chi più chi meno, la propensione a sperimentare per prove ed errori. Poi, il contesto sociale, scolastico, familiare ci modella e questa paura di non fare la cosa giusta, secondo il metro di misura altrui, ci accompagna già in tenera età».
La nascita della Scuola di Fallimento e la paura di fallire nella società secondo Francesca Corrado
Il mondo del fallimento è qualcosa di cui tutti abbiamo paura e quando entra a far parte della nostra vita ci fa vergognare, ci fa sentire inadeguati e inadatti nella realizzazione di un obiettivo. A tal proposito, durante il processo educativo, attorno a noi si formano tante, forse troppe, aspettative: genitori, parenti, ma la stessa scuola, creano in noi la convinzione che la vita debba essere una scalata verso il successo, nascondendo l’inaspettato, le difficoltà e i periodi duri che essa può presentare.
La scuola, di pari passo con la famiglia, ha il compito di fornire gli strumenti per affrontare la vita. Secondo Lei cosa non sta funzionando?
«Un dato che ritengo interessante è che nel tempo è cambiata l’età in cui è consentito sbagliare: i genitori, gli insegnanti, la società iniziano a pretendere perfezione e successo già durante l’infanzia, come a dire che imperfezione e sbavature non sono più ammesse.
Non è un caso, ad esempio, che in molte scuole del Nord Europa i bambini fino ai 10 anninon ricevono alcun voto, perché devono sperimentare conoscenze e saperi senza il timore di essere giudicati.
Uno dei compiti della scuola e della famiglia deve essere quello di insegnare a gestire bene la competizione, a saper perdere e a saper vincere. Ma anche, e soprattutto, insegnare che si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati; che il percorso è più importante del risultato e che ciò che si è appreso lungo la strada, l’impegno e la dedizione hanno un valore maggiore di un semplice voto».
Francesca diffonde un invito a genitori e insegnanti in merito al loro compito educativo, e aggiunge:
«Incoraggiateli a condividere aspettative deluse e insuccessi, per poi lodarne gli sforzi e la perseveranza, elogiando non il risultato ma l’impegno: i cambiamenti saranno inaspettati!».
Lei pensa che il fallimento sia percepito in maniera differente in Italia rispetto ad altri Paesi del mondo?
«Nei Paesi a matrice cattolica come il nostro, il concetto è frequentemente associato a termini quali: inutilità, vergogna, disastro, debito, rinuncia, impossibilità. Dichiararsi fallito può significare che non si è riusciti a raggiungere un obiettivo, concretizzare un desiderio, che non si è concluso nulla di importante che abbia valore per sé e per gli altri. In tutti questi i casi il fallimento è vissuto come un marchio indelebile che mina la stima altrui e l’autostima, mettendo in discussione desideri e capacità. Al contrario, nei Paesi a matrice protestante l’atteggiamento è più accomodante, sebbene non esista un’oasi completamente sana su questo tema. In generale, viviamo in una società competitiva: vite irrealisticamente “perfette” che vengono regolarmente proiettate sui social».
La Scuola di Fallimento è la prima scuola in Italia che nasce con l’obiettivo di costruire e diffondere una sana cultura del fallimento, un viaggio alla scoperta di sé, dei propri limiti e dei propri talenti. Per tale motivo, vengono proposti eventi, lezioni show e perCORSI per gruppi o singoli. In particolare, queste attività hanno registrato feedback positivi da aziende multinazionali che intendevano offrire sostegno agli insuccessi dei propri dipendenti, da genitori preoccupati per il futuro dei propri figli e da società interessate ad inserire moduli nei progetti scolastici di alternanza scuola-lavoro.
Alla luce di quanto detto finora, secondo Lei come andrebbe affrontata la paura di fallire e in che modo contribuite con la Scuola di Fallimento?
«La paura si affronta con il coraggio, assumendosi la responsabilità delle proprie azioni e accogliendo la possibilità che gli eventi vadano in una direzione diversa da quella sperata.
Con la Scuola di Fallimento trasmettiamo questi messaggi:
- Dobbiamo accettare l’errore ed essere tolleranti rispetto alle nostre cadute e agli insuccessi altrui, perché l’errore è insito nella natura umana.
- Dare e darsi una seconda possibilità.
- Analizzare gli errori.
- Sdrammatizzare gli errori.
- Condividere gli errori.
Questo ci aiuta infatti a smontare la credenza che la competenza sia sinonimo di perfezione. Chi sbaglia deve raccontare l’errore perché solo condividendo il racconto, questi si trasformano in fonte di apprendimento comune e di progresso».
Il fallimento è un elemento positivo nelle nostre vite, ma come viene affrontato da uomini, donne e bambini? Ce lo spiega Francesca Corrado
Lei ha sostenuto spesso che il fallimento sia un bene nelle nostre vite. Ci spieghi meglio.
«Ogni nostro desiderio si raggiunge per mezzo della conquista e della sperimentazione dell’errore e dei fallimenti che, se accolti e analizzati, permettono di vedere cose nuove. Solo chi va avanti alla cieca compie le stesse scelte sbagliate e quindi inciampa e cade sugli errori, mentre per chi utilizza la giusta prospettiva quel fallimento si trasforma in un trampolino di lancio, in nuove idee e in nuove risorse. Spesso il fallimento pone fine a qualcosa che non andava più bene e può essere l’inizio di qualcosa di più buono».
Francesca Corrado ci conferma che il fallimento è un fenomeno percepito e vissuto sia da giovani che da adulti, ma vediamo quali sono le differenze che prevalgono in base all’età dei soggetti in questione:
«I giovani di oggi hanno una tendenza maggiore al perfezionismo rispetto alle generazioni passate e, per una questione biochimica rispondono in modo più avventato agli stimoli emotivi negativi, mostrandosi meno razionali nel trovare la soluzione ai problemi. Con l’aumentare dell’età, invece gli adulti sono più motivati e competenti nella regolazione delle emozioni come: la frustrazione, la rabbia, la vergogna e il senso di colpa. Forti del loro bagaglio di esperienza tendono a temere meno gli errori ed essere meno ansiosi.
La percezione dell’errore è sempre legato a un mix di fattori: il paese di origine, la cultura, la religione, il Pil del paese, la formazione scolastica, l’educazione familiare; contano anche le caratteristiche individuali, biochimiche e anche il genere.
Le donne, a differenza degli uomini, sono più sensibili all’ errore perché sono state educate al mito della perfezione: devono dimostrare, in ogni circostanza, di essere brave, responsabili ed impeccabili. Quelle in posizione di leadership sono giudicate più duramente per i loro sbagli; in questo modo l’errore diventa un metro con cui valutare, in modo errato, capacità e competenze. E poi, più degli uomini, tendono ad andare in overthinking, ovvero a rimuginare sugli stessi errori e a rischiare di meno, e temono le conseguenze del fallimento sul piano del giudizio che la persona ha di sé stessa.
Le donne con una maggiore propensione al rischio e all’azione, e quindi alla possibilità di sbagliare, sono quelle che provengono da famiglie che le appoggiano nella buona e nella cattiva sorte e lo dichiarano apertamente».
Al termine di questa intervista con la fondatrice della Scuola di Fallimento, se ci fermiamo a riflettere per un momento, ci rendiamo conto che la paura di fallire si manifesta spesso nelle nostre giornate e in modi differenti: prima di affrontare un discorso in pubblico, prima di lanciarsi in una nuova esperienza o in una nuova relazione, in ogni nuova situazione la nostra prima domanda è: «E se non riuscirò? Sarà l’ennesimo fallimento».
Tuttavia, superare la paura del fallimento significa spingerci fuori dalla nostra zona di comfort e, ringraziando Francesca Corrado per questa intervista e per aver contribuito ad un cambiamento con la realizzazione della Scuola di Fallimento, dobbiamo tenere a mente le sue parole dinanzi ad ogni nostra difficoltà futura:
«Il fallimento non è un marchio né una identità: se ho fallito allora sono un/una fallito/a, ma è un nuovo o diverso punto di partenza. È un feedback utile a capire se stiamo andando nella giusta direzione o se dobbiamo cambiare rotta».