Dimenticate l’immagine fantastica e palesemente utopica del poeta che, colto da una illuminante ispirazione mistica, scrive di getto capolavori immortali che in quattro e quattr’otto sono pronti per affrontare a testa alta il giudizio dei critici e incontrare il gusto dei lettori.
Perfino Giacomo Leopardi, genio dotato di straordinaria sensibilità, sottoponeva le sue intuizioni letterarie a meticolosi lavori di stesura e revisione, seduto allo scrittoio e chino su cancellature, aggiunte, correzioni e indecisioni nella scelta della giusta parola da usare. I suoi testi erano “pasticciati” quasi quanto quelli di uno scolaro alle prese con la brutta copia di un tema d’italiano.
È chiaro? Sfatiamo una volta per tutte questo mito della fugace ispirazione, perché anche scrivere poesie è faticoso.
Giovanni Pascoli e Severino Ferrari, per esempio, erano soliti riferirsi alla loro attività poetica con un termine il cui universo tematico e semantico è ben presente nella letteratura sin dai tempi antichi: tessitura.
Con questa parola Pascoli e l’amico Ferrari alludevano metaforicamente al mestiere del poeta e all’atto della scrittura. Allo stesso modo delle tessitrici, che intessono fili con pazienza e attenzione, i poeti intessono parole, rime, ritmi, concetti, svolgendo anch’essi un lavoro difficile e meticoloso come quello del tessere in senso classico.
Il poeta sceglie con cura tutti gli elementi del suo testo per poter creare le giuste armonie. Non lascia nulla al caso, né tantomeno attende che la penna inizi a scrivere da sola mossa dalla volontà di chissà quale musa.
L’attività della tessitura poetica è tutt’altro che semplice e merita di essere considerata in quanto tale, in tutta la sua complessità, perché scrivere poesie richiede molto, moltissimo impegno. E chi si affida totalmente alla fulminante ispirazione potrà, se fortunato, buttare giù al massimo una lista della spesa. Però, a pensarci bene, anche per quella bisogna riflettere almeno un po’.
Annapaola Ursini