L’ictus cerebrale rappresenta la prima causa di invalidità, la seconda di demenza e la terza di mortalità nei paesi occidentali.
Nel mondo, ogni anno, sono circa 15 milioni le persone colpite da ictus, e la molteplicità di cause e fattori di rischio da cui scaturisce, fanno si che nessuno sia realmente preservato dalla minaccia di questo infausto nemico.
Neppure chi allo studio del cervello, del suo funzionamento e del suo stato di salute, ha dedicato la propria vita, come la dottoressa Jill Bolte Taylor. A trentasette anni vantava una laurea ad Harvard in neuroanatomia, un lavoro come neuroscienziata e ricercatrice universitaria, e una prestigiosa posizione come membro del consiglio del NAMI
“Facevo ricerca e spiegavo il cervello umano a giovani medici all’ Harvard Medical School. Ma il 10 Dicembre 1996 fui io a ricevere una lezione da me stessa”.
Quella mattina un vaso sanguigno, a seguito di una malformazione arterovenosa congenita (MAV), esplode improvvisamente nell’emisfero sinistro del suo cervello provocandole un danno cerebrale devastante.
Solo il 2% dei casi di ischemia è ascrivibile a una MAV, nell’ambito del 17% degli ictus di natura emorragica e contro l’83% di quelli ischemici di natura ostruttiva.
Ma ciò che rende particolare e degno di nota il caso di Jill non è la relativa rarità della sua condizione, bensì della sua “reazione”, che hanno reso il lungo percorso di guarigione, raccontato ne “La scoperta del giardino della mente“, non soltanto un caso di straordinaria ripresa fisica ma soprattutto la testimonianza di un’esperienza umana unica.
Sperimentando la duplice veste di medico e paziente, è riuscita a scoprire in prima persona cose, riguardo se stessa e il proprio cervello, che mai avrebbe immaginato nei suoi studi.
“Quella mattina, mentre i centri del linguaggio dell’emisfero sinistro si facevano sempre più taciturni e i ricordi della mia vita si allontanavano, venni stranamente confortata da un crescente senso di beatitudine. In quel vuoto di cognizione superiore, la mia coscienza si elevò a una sorta di onniscienza, fino a sentirmi un tutt’uno con l’universo.”
Difatti, con il dominante emisfero sinistro leso dall’ictus, le sensazioni, le emozioni e le intuizioni proprie dell’emisfero destro emersero impetuose , permeando Jill di una empatia e una pace interiore fino ad ora sconosciute, e quasi paradossali rispetto alla situazione di estrema emergenza medica che si trovava a vivere.
E’ noto che i due emisferi cerebrali elaborano le informazioni in maniera indipendente e specializzata, integrando poi in modo complementare le loro funzioni grazie al fascio nervoso che li connette, detto corpo calloso.
La mente destra percepisce e pensa in modo olistico, ci trasmette il senso di interconnessione col mondo, senza la percezione di confini tra sé e gli altri. E’ istintiva, empatica, creativa, ci spinge a trovare “nuove soluzioni a vecchi problemi” e sviluppare le nostre capacità artistiche. Per l’emisfero destro esiste solo il presente, nessun passato, nessun futuro.
La mente sinistra elabora le informazioni in maniera lineare e le organizza in sequenze temporali, costruendo così il senso di un prima e un dopo. E’ razionale, logica, schematica, ci spinge ad applicare “vecchie soluzioni a nuovi problemi” e sviluppare le capacità di calcolo e di parola. E’ l’emisfero sinistro che ci trasmette il senso del sé, dei limiti, e delle differenze.
Da questo dualismo della mente è facile intuire ne derivino personalità distinte.
“Prima dell’ictus le cellule del mio emisfero destro erano sopraffatte da quelle dell’emisfero sinistro, e di conseguenza nella mia personalità erano dominanti l’ego, la capacità di giudizio e di analisi. L’emorragia me ne privò , risvegliando in me un forte desiderio di pace, gioia e compassione. Questo mi diede la possibilità di distinguere con chiarezza i due caratteri che si spartiscono la mia testa. Le due metà del cervello non si limitano a percepire e pensare in modo diverso a livello neurologico, ma esibiscono anche personalità ben diverse”
E’ chiaro che, poiché ci percepiamo come individui unici con una sola coscienza, è difficile se non impossibile discernere il carattere della mente destra da quello della mente sinistra. Ma prendere consapevolezza di questa differenza e riuscire a individuare quale parte del cervello sta elaborando le informazioni che ci arrivano, ci consentirà di avere più scelta riguardo a come pensiamo, sentiamo e ci rapportiamo col mondo che ci circonda.
Il percorso che ha portato Jill a maturare queste asserzioni – che potrebbero certo apparire più facili a dirsi che a mettersi in pratica – è durato otto difficili anni, in costante lotta tra il recuperare la funzionalità dell’emisfero sinistro, riesumando la “vecchia sé”, e il permanere nello stato di grazia dell’emisfero destro, serbando la “nuova sé”.
Dalla sua esperienza sono scaturiti non solo suggerimenti terapeutici, utili a chi è rimasto vittima di un ictus o di un trauma cerebrale e a coloro che li circondano, ma anche stimolanti spunti per chiunque voglia addentrarsi alla scoperta del giardino della propria mente e trovare l’altra parte di sè.
Come? Ad esempio imparando a focalizzarsi sul “qui e ora”e interrompere i ricorrenti schemi di pensiero che influiscono negativamente sul proprio benessere. Infatti emozioni come l’ansia, la paura, l’ira innescano reazioni fisiologiche involontarie, coinvolgendoci quindi sia a livello emotivo che corporeo, che hanno una durata di circa 90 secondi, passati i quali riacquisiamo la capacità di decidere volontariamente se cessare o meno quel circuito.
Possiamo essere noi a scegliere come reagire agli stimoli, attivando un circuito piuttosto che un altro. Prendere consapevolezza di questo “potere” ed allenarsi ad esercitarlo, potrebbe avere effetti sorprendenti sul nostro benessere, fisico e mentale.
Significa che abbiamo ciascuno la capacità di rivendicare a noi stessi la propria felicità.
“Prima dell’ictus cerebrale pensavo di essere un prodotto del mio cervello e non avevo la mia idea di poter decidere come reagire alle emozioni che sorgevano dentro di me. Nessuno mi aveva mai detto che, a livello biochimico, bastano novanta secondi perché un’emozione che si è impossessata di noi lasci la presa. Rendermene conto ha cambiato enormemente il mio modo di affrontare la vita”
Arianna Pane