Sono iniziati circa un mese fa gli scioperi in Francia contro la riforma delle pensioni voluta da Macron. La riforma prevede, tra le altre cose, l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni entro il 2030 e la diminuzione della pensione, che passerebbe da 1400 euro medi mensili a circa 1000 euro.
Gli scioperi in Francia si inseriscono in un contesto già complesso, a causa dell’ innalzamento del costo della vita. Probabilmente è anche a causa del tempismo della riforma in un momento di crisi economica che il tasso di sostegno alle proteste tra i cittadini francesi rimane così elevato. Macron aveva già avanzato una proposta simile nel 2019, ma, causa le contestazioni e la diffusione del Covid-19, aveva rimandato i lavori. Questa volta, però, la riforma potrebbe essere adottata definitivamente già il 16 marzo, grazie alla procedura d’esame accelerata prevista in Costituzione. Questa permette di intraprendere una strada semplificata per l’approvazione di una norma entro 50 giorni dalla proposta.
La volontà è sia quella di rendere più omogeneo il sistema delle pensioni sia quella di colmare il divario tra impiegati e pensionati. Il sistema, come in Italia, prevede che gli attuali lavoratori versino parte del proprio stipendio per le pensioni degli attuali pensionati. Ma l’innalzamento dell’età media genera squilibri sempre maggiori tra chi contribuisce e chi percepisce la pensione.
Il 10 gennaio Macron ha presentato la proposta, nove giorni dopo c’è stata la prima manifestazione di piazza a Parigi e in 200 altre città del Paese, tra cui Marsiglia, Montpellier, Bordeaux, Tolosa, Tours, Pau. I dati riportati dalla prefettura differiscono da quelli indicati dai sindacati. I manifestanti sarebbero molti di più di quanti vorrebbe far credere il Ministero. La discordanza tra quanto gli scioperi siano effettivamente partecipati e quanto riportano i canali ufficiali fa riflettere sull’importanza che entrambi gli schieramenti danno alla partecipazione.
Se chi protesta gonfia i numeri per sottolineare la condivisibilità della lotta, le istituzioni fanno l’opposto per cercare di diminuire il peso politico e sociale che gli scioperi in Francia necessariamente hanno
Stando a quanto riportato dal sindacato Cgt, nel primo giorno di sciopero, la manifestazione più partecipata sarebbe quella di Parigi con oltre 400 mila persone. Sommate a quelle delle altre città, arriverebbero ad essere circa 1 milione di cittadini, numero che aumenta, fino a raggiungere la soglia dei 3 milioni nei successivi cortei. La strategia politica degli organizzatori è stata furba. Oltre a organizzare cortei nelle maggiori città, hanno invitato i cittadini di tutta la Francia a mostrare il proprio dissenso. Che nella cappitale scendano in piazza 400 mila persone potrebbe fare poca notizia, ma se in un piccolo paese della provincia del Sud della Francia manifestano 400 persone, non è più possibile nascondere il malcontento dilagante e camuffare i numeri.
Oltre alle sigle sindacali che si sono unite nelle proteste, le manifestazioni sono sostenute anche dai partiti più di sinistra, tra cui La France Insoumise (FI)
Il suo leader, Jean-Luc Mélenchon, ha annunciato che dal 7 marzo sarà invocato uno sciopero generale in tutto il Paese. In attesa di questa data, gli scioperi non si sono fermati: il 31 gennaio c’è stata una grande manifestazione a cui sono seguiti scontri e arresti. Il 16 febbraio, in occasione della quinta giornata di scioperi, i poliziotti hanno arrestato 25 studenti, tra cui alcuni liceali.
Tra i manifestanti, infatti, una grande fetta è composta dagli studenti e dalle studentesse. Si oppongono ad una riforma che diminuisce le speranze verso un futuro già incerto e che spinge l’acceleratore su una visione ancora più lavoro-centrica della società.
Ed è in questo clima che, il 23 gennaio scorso, studenti e studentesse per poche ore hanno occupato una stanza del Condorcet Campus a Parigi. La polizia ha prontamente sgomberato l’occupazione e arrestato 29 giovani, successivamente portati in caserma e sottoposti a violenze e umiliazioni. Le violenze, sia fisiche che psicologiche, inflitte ai manifestanti sono state costanti. Se si può discutere sulla condivisibilità o meno di una protesta, certamente non si può giustificare una violenza inflitta da chi in quel momento sta rappresentando lo Stato.
Non si può usare lo stesso peso nel considerare le dimostrazioni dei manifestanti e le violenze inferte da chi dovrebbe mantenerlo l’ordine, non sconvolgerlo. Come nel nostro Paese, la repressione della polizia risponde con violenza alle manifestazioni di dissenso. Nonostante ciò, le occupazioni sono continuate e la settimana scorsa l’occupazione di una succursale della Sorbona, Tolbiac, ha retto per un giorno intero.
In ogni caso, le contestazioni non sono solo demolitorie: sono state proposte delle possibilità alternative per risolvere la questione.
Alcuni sostengono che si potrebbero aumentare le contribuzioni, in particolare di chi riceve stipendi molto elevati, ma il governo si oppone. Oppure prelevare parte dei contributi da chi già percepisce una pensione, che a volte è anche più elevata degli stipendi odierni, ma anche in questo caso il governo si oppone.
Dato che in Assemblea Nazionale la discussione sulla proposta di legge ha subito continui ritardi grazie agli emendamenti dell’opposizione e al clima sociale teso dell’ultimo periodo, sembrerebbe che gli scioperi in Francia stiano funzionando. Scendere in piazza e mostrarsi discordi nei confronti di una legge in cui non si crede porta ancora a risultati concreti.
I dissidenti comunque mostrano la volontà di continuare nonostante la protesta sia approdata anche in aula. Perciò Macron ha deciso di schierare un’importante quantità di poliziotti a difesa delle città nei giorni delle proteste, per mantenere l’ordine.
Ma se è a forza di soprusi che la polizia mantiene l’ordine, come può essere considerato ordine? La storia degli scioperi in Francia ha sicuramente un peso politico e sociale diverso da quello che conosciamo noi. Proprio per questo la repressione è dura e violenta. E ripresenta sempre la stessa faccia: quella di uno Stato che di fronte all’opposizione politica organizzata e partecipata dal basso non vede altra soluzione che rispondere con la violenza.