Schizofrenia: Susanna D’Alessandro racconta, attraverso le sue meravigliose foto, la storia di una vita
Ci sono storie che si raccontano con estrema facilità, ma che – a volte – con la stessa facilità rapida scompaiono dalla mente, e storie delicate, profonde, difficili da raccontare e che restano stampate nel cuore e nel cervello.
La storia di Susanna D’Alessandro e sua madre Jay è una di queste storie, una storia di una forza immensa, di un amore sconfinato e di un’anima che vuole sensibilizzare, una storia di quelle che ti abitano nel cuore.
Casualmente, qualche giorno fa, mi sono imbattuta in un articolo de La Repubblica (www.d.repubblica.it) che racconta la storia di Jay, una signora thailandese di sessant’anni, il cui mondo è fatto di oggetti da collezionare, giocattoli e un cane.
Si legge che il suo è:
un modo creato ad hoc per sfuggire alle sofferenze e ai traumi di una vita, un mondo nel quale sentirsi sicuri e protetti. Jay soffre infatti di schizofrenia da una decina d’anni e il suo unico contatto con la realtà è la presenza […] della figlia Susanna d’Alessandro.
(www.d.repubblica.it)
Leggendo queste poche righe mi sono commossa e ho sentito il profondo bisogno di fare qualcosa, perché la storia di Susanna e Jay merita il giusto spazio e il giusto tempo.
Di fronte un mondo che dice di tenere a noi, ma poi di base non lo fa, ho sempre l’idea che bisogna fare di più – almeno tra noi – almeno tra i cuori che hanno tutti lo stesso colore.
Susanna D’Alessandro è una fotografa di venticinque anni, originaria di Pescara, che contro tutto e tutti, con passione e dedizione, ha inseguito il suo sogno che ora, passo passo, sta realizzando.
Da un paio di anni lavora a un meraviglioso progetto, “intimo”: “Living in a fishbowl” un reportage in cui racconta la storia della madre Jay e della sua “invisibile” malattia, la schizofrenia.
Un reportage che è:
frutto di uno sforzo incredibile che ho fatto nel cercare di mantenere lucida la testa mentre il cuore si stringeva – commenta la giovane fotografa sulla sua pagina Facebook – Non ho mai voluto pubblicare queste foto su Facebook, non era giusto ‘sprecarle’ così e soprattutto non volevo che arrivasse al pubblico un senso becero di strumentalizzazione della situazione. Quel che volevo – e voglio fare – con questo primo progetto, è sensibilizzare le persone alle reale presenza delle malattie invisibili, i cui nomi, troppo spesso, vengono usati in maniera inadeguata, spropositata.
Ci sono, infatti, malattie che esteriormente non sono visibili, e l’uomo purtroppo fraintende sempre troppo spesso ciò che non vede con gli occhi, e bloccandosi all’esteriorità non percepisce nemmeno con il cuore.
Le malattie mentali sono quel tipo di malattie invisibili, ma visibili per chi le vive e per chi ne è accanto: credo sia doveroso sensibilizzarci il più possibile a conoscerle, evitando così di abusare con troppa semplicità di concetti che, purtroppo, molte persone vivono.
La schizofrenia è un disturbo psichico che comporta disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive (DSM-5, 2013) e si hanno vari tipo di schizofrenia (di tipo catatonico, paranoide, disorganizzato).
Il senso comune – ecco perché occorre sensibilizzare, per dare meno adito al senso comune – tende a considerare coloro i quali soffrono di schizofrenia, come caratterizzanti da una doppia personalità (come nel disturbo dissociativo dell’identità), poiché letteralmente “schizofrenia” significa “mente divisa”.
In realtà la schizofrenia è caratterizzata da sintomi quali: delirio e allucinazione, comportamento catatonico. Questi sintomi sono presenti per una parte di tempo significativo, durante un periodo di un mese (DSM-5, 2013).
L’intento di questo articolo è sensibilizzare alle malattie mentali, ma soprattutto raccontarvi del sorriso di Jay, che sua figlia Susanna, riesce a catturare fedelmente, in tutta la sua bellezza.
Incredibilmente nobile il suo progetto, ciò che questa ragazza – tanto giovane quanto forte – con la sua storia insegna. E chi meglio di lei, di Susanna D’Alessandro, può raccontare il suo cuore?
Premettendo la difficoltà nel formulare una domanda: qual è stato uno dei tuoi primi pensieri quando hai scoperto che tua mamma soffrisse di schizofrenia?
È la prima volta che mi pongono – e mi pongo – questa domanda.
Per farlo, ho bisogno di raccontare in breve l’accaduto. È successo tutto durante l’ultimo anno di liceo. Mia madre, sarà il sangue asiatico che porta dentro, è sempre stata e lo è tutt’ora una donna sorridente. In quegli anni si era separata con mio padre dopo 22 anni di matrimonio, motivo per il quale era finita qui in Italia, e poco tempo dopo abbiamo avuto il tragico lutto di mio fratello maggiore che morì a 27 anni. Da quando avevo quattordici anni, lei iniziò a passare le giornate buttata sul divano e lobotomizzata davanti la tv. Fumava e beveva molto, ma con me cercava di nascondere le sue sofferenze. Essendo piccola e incosciente, diciamo che mi abituai passivamente alla situazione senza rendermene conto davvero, fino a che una notte dei miei 17 anni, mi svegliai di colpo perché la sentivo girovagare per casa assicurandosi di chiudere e sigillare tutte le finestre. Quando arrivai in salotto e le chiesi cosa stava facendo, iniziò a parlarmi della “famiglia che la spiava e parlava di lei in continuazione” che a suo parere viveva nella pineta di fronte casa. Ecco, la mia prima emozione fu la paura. Accecata dal sonno, all’inizio credetti che ci fossero davvero queste persone, ma più il tempo passava, più mi accorgevo che lei sentiva delle voci e le sentiva davvero. Cercai di calmarla e di farle capire che non esistevano, non sapendo come rapportarmi in una situazione del genere, ma ottenni l’effetto contrario: lei si mortificò pensando che non le credessi e da allora iniziò a mentirmi. Avendo come lei dovuto affrontare gli stessi traumi, diciamo che a dispetto degli altri miei coetanei la vita mi aveva portata ad essere molto più adulta dell’età effettiva che avevo. Soffrì veramente tanto, senza rendermene conto. Passai lunghi periodi di depressione, in cui dormivo molto e mangiavo tantissimo, a mio modo mi ero creata un muro di apatia con il mondo esterno. Il problema era che non avevo idea di cosa fosse la depressione, dunque vivevo la mia “tristezza” rassegnata e giustificata.
Ma sarà appunto perché ho vissuto emozioni così forti in adolescenza, che quando sono cresciuta, come dicevo ai miei amici, mi sentivo già “quarant’anni addosso”. Stanca di essere triste vittima e passiva alla mia vita, mi rimboccai le maniche. Capii che non potevo dare la colpa a nessuno delle cose che mi erano successe e che l’unico modo per essere felice e vivere serenamente era accettare davvero la mia realtà e vivermi con serenità il modo in cui affrontarlo. Così io e mio padre iniziammo lunghe ricerche sul web e attraverso i sintomi, scoprimmo che tutto portava alla Schizofrenia e da lì iniziammo a muoverci di conseguenza. Ad oggi scherzo sul fatto che alcune mie coetanee hanno iniziato a metter su famiglia e che io come loro ho una splendida e dolcissima bambina di 60 anni da accudire.
Tua madre ha un bellissimo sorriso: che emozioni hai provato a scattarle delle foto?
Mia madre è sempre stata una donna bellissima. Da giovane era una super foto modella per enormi marchi famosi a livello mondiale e grazie a questo girò il mondo.
Iniziai a fotografarla per caso, mi faceva sorridere farlo. È una donna buffissima: dopo quasi 35 anni in Italia parla ancora con l’accento asiatico, ride per tutto anche quando non capisce le battute e si auto ironizza sul fatto di essere ancora “sexy”. Dato che vivendo a Roma passavo poco tempo con lei, il fatto di scattarle foto ogni volta che tornava divenne un momento da condividere insieme. Il suo estraniamento alla realtà mi permetteva di fotografarla da vicinissimo, senza che lei se ne rendesse conto. Mi divertivo. Quando però scattai le ultime tre foto del progetto, quelle che la ritraggono mentre mi accompagna alla macchina prima che io riparta, sono per me state uno strazio. In una di queste foto si vede chiaramente la sofferenza del dovermi di nuovo lasciare andare. Mi disse “mi stai lasciando sola di nuovo” ed io la rassicurai che tornavo presto e poi buttai giù due battute per farla ridere. Dopo che scattai l’ultima foto dalla finestra anteriore dell’auto mentre partivo, ricordo che scoppiai a piangere e piansi poi per tutte le due ore e mezza del viaggio Pescara-Roma. Per mia madre provo una profonda tristezza e tenerezza per la sua condizione. Da 35 anni non torna in Thailandia, io non ho mai conosciuto i miei parenti ed ora che è in queste condizioni, vorrei poterle regalare questa gioia ma non so proprio come potermela gestire, non conoscendo neanche la lingua che purtroppo non mi ha insegnato.
Hai un grande talento e una grande anima: quali sono i tuoi progetti futuri, soprattutto con il progetto “Living in a fishbowl”?
Sinceramente, non ne ho idea. Nel senso: è da tempo che parlavo con i miei amici del fatto che le malattie mentali, non sono malattie che la gente prende sul serio. Io stessa, nel corso degli anni, mi sono sentita più volte ripetere “ma tu non sei depressa, prova ad alzarti da quel letto e vedi che non lo sei”. Era difficile per me spiegare che era proprio quello il problema: la depressione mi teneva incollata a letto. Ma quando dovevo lavorare o prima ancora studiare, non c’era un certificato medico che mi giustificasse in caso di assenza, qualcuno che prendesse sul serio la mia condizione. Questa cosa, assieme a quella di mia madre e di altre storie vicine che conosco, mi hanno fatto riflettere sul fatto che le persone non sanno dare assolutamente il giusto peso a queste malattie. Quante volte sentiamo le persone abusare di queste parole dicendoci “sono depressa” “oggi sono schizofrenica”? Leggo anche spesso su Facebook persone che scrivono “Ho appena avuto un attacco di panico”. Queste cose, mi fanno imbestialire. Il mio progetto futuro è quindi quello di lavorare ancora sulle malattie mentali, possibilmente quelle più inflazionate in questo senso. La difficoltà sarà trovare qualcuno disposto ad accogliermi e “denudarsi” di fronte a questi episodi.
Vanessa Romani