Esiste un legame molto stretto tra schizofrenia e linguaggio, tanto che i disturbi espressivi sono considerati il primo segnale dall’allarme
Brevi cenni storici: il DSM ed Emil Kraepelin
Per approcciarsi alla schizofrenia, e in generale ai disturbi psichiatrici, bisogna iniziare dal testo più autorevole in materia: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM). Sotto la voce “schizofrenia” si legge:
La schizofrenia è caratterizzata da psicosi (perdita del contatto con la realtà), allucinazioni (false percezioni), deliri (falsi convincimenti), linguaggio e comportamento disorganizzati, appiattimento dell’affettività (manifestazioni emotive ridotte), deficit cognitivi (compromissione del ragionamento e della capacità di soluzione dei problemi) e malfunzionamento occupazionale e sociale. […]
Emerge fin da subito il legame tra schizofrenia e linguaggio, dal momento che si afferma fin da subito come elemento paradigmatico del disturbo. Quando però si parla di “disturbo del linguaggio” è bene fare una precisazione. La disorganizzazione che le e i pazienti schizofrenici riportano nell’espressione linguistica non riguarda tanto la struttura quanto senso del discorso. La sintassi rimane “intatta”, mentre si registrano disordini rispetto, appunto, al senso del discorso, creando così frasi senza continuità logica.
Questi “disordini” – termine utilizzato proprio all’interno del DSM – sono stati identificati e classificati all’alba della scienza psichiatrica e in particolare da Emil Kraepelin. Il suo nome è legato in particolare a due disturbi: la demenza precoce – in seguito definita “schizofrenia” – e la mania depressiva. Con il suo studio minuzioso, ad esempio delle cause (esogene o endogene) dei disturbi, si affermò come padre delle moderne classificazioni delle patologie psichiche.
Quattro alterazioni linguistiche tipiche
Tra i maggiori contributi di Kraepelin alla scienza clinica vi è l’individuazione di quattro alterazioni legate alla schizofrenia che vengono tutt’oggi considerate valide. Abbiamo in primo luogo il deragliamento, ovvero l’allontanamento graduale dal focus del discorso o della domanda. Avviene che, ad esempio, a domanda posta dalla/o psichiatra, la/il paziente accenni solo ad una risposta per poi abbandonarla senza effettiva consapevolezza. La seconda alterazione è la tangenzialità: simile al deragliamento, l’allontanamento dal focus della domanda/questione avviene in maniera più brusca. La/il paziente vira verso temi che reputa più importanti oppure intende la domanda in un senso più profondo di quello che ha realmente. Terzo caso, l’incoerenza: si tratta dell’alterazione linguistica più grave, dal momento che si ha l’accostamento di termini che non hanno nessun legame logico. Ciò che in questo caso collassa è la dimensione del significato: gli elementi discorsivi non possono in nessun modo trovare una logica che li tenga uniti. Ultima alterazione, i neologismi: la premessa da compiere è il fatto che spesso le/i pazienti vivono in un mondo creato da loro e che esiste solo per loro. Le esperienze che quindi vivono sono “disponibili” solo a loro e per questo le parole che il mondo esterno fornisce sono incapaci di descriverle. Arriva così l’esigenza di creare delle parole ad hoc per queste esperienze, che entrano nel “vocabolario permanente” del/della paziente.
Queste sono solo quattro tra le molteplici alterazioni che legano schizofrenia e linguaggio, ma sono le più comuni e spesso permettono l’individuazione del disturbo.
Il particolare attaccamento alle parole
Accade anche, nei casi di disturbi schizofrenici, che la/il paziente sviluppi un’attenzione maniacale nei confronti delle parole. Eugenio Tanzi, uno dei più celebri psichiatri italiani del XX secolo, definì questa tendenza “idolatria delle parole”. Ripercorrendo alcuni casi di studio, si nota infatti come alcune/i pazienti erano più interessate/i alla sonorità delle parole, strutturando il discorso a partire da questa. Quello che diventava centrale non è più il senso o il concetto che si voleva esprimere, ma esclusivamente le assonanze che una certa parola richiamava. La priorità viene quindi data alla parola e non più all’oggetto (reale) a cui si riferisce. La/Il paziente viene quindi intrappolata/o dentro il linguaggio senza (spesso) mai arrivare a rispondere alla domanda di partenza, determinando una perdita del contatto col reale. La/Il schizofrenica/o non considera più le parole come elementi per indicare un oggetto “concreto”, ma per lei/lui queste diventano “cose semiotiche”. Le parole diventano veri e propri oggetti da indagare, smontare e intorno alle quali si concentra la propria attenzione.
Un’altra considerazione da fare nel merito di come le parole vengono trattate nel rapporto tra schizofrenia e linguaggio riguarda il legame tra disorganizzazione e categorizzazione. Le quattro alterazioni presentate sopra vengono definite dal DSM “disorganizzazioni linguistiche” e, come visto, rendono complicata la strutturazione di un discorso coerente. Una domanda che può sorgere a partire da questa alterazione riguarda il modo in cui le/i pazienti suddividono semanticamente i termini, nel processo di categorizzazione. La domanda potrebbe essere formulata come segue: esiste una relazione tra “disordine logico” e difficoltà nel raggruppare termini che appartengono allo stesso gruppo semantico? O ancora: le/i schizofrenici, nelle loro alterazioni, rimangono all’interno dello stesso gruppo semantico o creano collegamenti anche in questo senso? La risposta è aperta: non esiste infatti nessuna relazione clinicamente certa che leghi disorganizzazione e categorizzazione.
Altri sintomi legati a schizofrenia e linguaggio: le allucinazioni
Le alterazioni linguistiche presentate non sono da intendere come un gruppo separato rispetto agli atri sintomi, anzi, spesso la correlazione è molto forte.
Questo legame emerge in particolar modo con le allucinazioni e il delirio. Le allucinazioni possono essere visive, olfattive o sonore: queste ultime sono le più “tipiche” e si “concretizzano” in voci che vengono udite dalla/o schizofrenico. Sono dotate di grande variabilità, possono infatti essere: commentanti (delle azioni) oppure dialoganti (non con la/o schizofrenico ma vi è la presenza di più voci). O ancora, possono provenire da dentro la testa della/del paziente (che spesso è in grado di indicarne il punto di provenienza) o dall’esterno. Tutte queste hanno – nella maggior parte dei casi – dei contenuti negativi (giudizi o insulti), che finiscono per “infestare” chi le sente.
Altri sintomi legati a schizofrenia e linguaggio: il delirio
C’è poi il caso del delirio – definito “di interpretazione”. Per comprendere appieno questo sintomo è necessario considerare ciò che lo precede, ovvero l’atmosfera pre-delirante. In questa “fase” si ha un completo distaccamento dal reale, per cui gli oggetti, le parole e anche le persone non hanno più né senso/significato né la/il schizofrenica/o è in grado di riconoscerne l’uso pratico. È classico di questo momento la credenza per cui le persone, anche familiari, vengono viste come robot/manichini, come enti non più umani. In un momento in cui non si è più capaci di dare significato al mondo circostante, il delirio si presenta come soluzione. Questo prende spesso la forma di “intuizione delirante”, grazie alla quale tutto torna ad avere un significato sulla base di una credenza specifica. L’esempio forse più conosciuto è quello legato alle manie di persecuzione: tutto trova un senso a partire dal fatto che il mondo stesso è organizzato contro la/il schizofrenica/o. In questa fase, inoltre, le parole e i gesti sembrano esprimere più di quello che fanno in superficie. Si arriva quindi ad un ribaltamento della situazione iniziale, in cui tutto è saturato di significato.
Per cercare di comprendere davvero questo sintomo è necessario sforzarsi e mettersi nei panni della/o schizofrenica/o. L’intuizione dà loro la possibilità di vivere – seppur in una realtà declinata secondo regole proprie – in un mondo in cui le cose che accadono hanno valore. Bisogna pensare che, nell’atmosfera pre-delirante, queste persone vivono in una sorta di limbo in cui niente ha davvero peso, in cui nulla ha (per certi versi) motivo di essere. Il delirio si presenta quindi come ancora di salvezza davanti a questo baratro di significato.
La schizofrenia come esperienza linguistica
Come affermato all’inizio, il legame tra schizofrenia e linguaggio è così forte perché, spesso, è il luogo di manifestazione primaria del disturbo. Oltre agli esempi riportati sopra, la predominanza della componente linguistica si ritrova anche in quei sintomi in cui il passaggio alla pratica sembrerebbe scontato. Prendiamo di nuovo il caso del delirio: contrariamente a quello che si potrebbe pensare, questo è spesso accompagnato da una completa inazione. Le manie di persecuzione dichiarate e la “teoria del complotto” organizzata contro la/o schizofrenica/o non porta quasi mai ad un’azione per ovviare a questa condizione.
Per dare un esempio più concreto consideriamo la sindrome di Capgras, quella per cui si è convinte/i che la/il propria/o partner sia stata/o sostituita/o da una/o sosia. Anche in questi casi, in cui la persona amata si pensa lontana (e/o in pericolo), nella maggior parte dei casi non si manifestano comportamenti violenti. In sostanza, la/il schizofrenica/o non aggredisce fisicamente quella/o che crede essere la/il finto partner. Nonostante ciò, il delirio rimane e con lui la convinzione di questa sostituzione.
La schizofrenia, quindi, può essere studiata non solo da un punto di vista medico-clinico, ma anche – come in questo caso – dal punto di vista linguistico. Questo disturbo intrattiene infatti una relazione particolare con l’espressione (sia orale che scritta), tanto che le alterazioni del linguaggio sono i primi indizi della schizofrenia.
Si potrebbe anche dire, quindi, che il linguaggio rende la schizofrenia ciò che è.