Superstizione, buona sorte, scaramanzia, sfortuna. In sintesi: “Non è vero, ma ci credo”.
In Italia, come nel resto del mondo, si tramandano credenze secondo cui alcune frasi o gesti attirerebbero o allontanerebbero la fortuna o la sfortuna; superstizioni in base alle quali dire qualcosa equivale a non farla accadere, o addirittura, fa avverare il suo contrario. Ernest Hemingway nel romanzo Il Vecchio e Il Mare, riferendosi al protagonista, ha scritto: “Non lo disse perché sapeva che se dicevi una cosa bella poteva non accadere”. Scaramanzia anche in bianco e nero quindi, e nero su bianco.
Negli Stati Uniti si usa incrociare le dita o toccare legno (in Italia il ferro) per propiziare il verificarsi di un evento desiderato. In Gran Bretagna non si dice “buona fortuna” ma “break a leg”. In Italia, invece, nonostante qualche critica degli animalisti, continua a funzionare il vecchio “in bocca al lupo”.
Non solo parole però. Ma anche gesti e comportamenti.
Mai camminare sotto una scala o rompere uno specchio. Si rischiano sette anni, di sfortuna. Per evitare il pericolo pioggia, invece, la consuetudine scaramantica prescrive di uscire con l’ombrello, da non aprire mai dentro casa, naturalmente.
Gesti apotropaici a parte, qualche usanza o modo di dire ha anche ragioni “storiche”. Nel mondo teatrale e dello spettacolo si usa dire “merda merda merda” perché nell’ ottocento molti spettatori andavano agli spettacoli in carrozza o a cavallo. Una grande mole di feci nei dintorni del teatro indicava quindi un grande successo di pubblico.
L’ AIDAA (Associazione Italiana Difesa Animali ed Ambiente) ha invece indetto una vera e propria giornata dedicata all’animale più discriminato di sempre: il gatto nero. La superstizione arriva dall’epoca delle superstizioni per eccellenza: il Medioevo. Nell’età di mezzo i gatti erano considerati i diabolici compagni delle streghe per la loro abitudine di uscire di notte. Quelli di colore nero avevano però l’aggravante di non essere molto visibili nell’oscurità: facevano quindi imbizzarrire i cavalli provocando la caduta dei cavalieri (e per questo, forse, la successiva estinzione).
È agli antichi romani invece che risale il detto: “anno bisesto anno funesto”.
Febbraio era infatti il mese dedicato ai defunti: nove giorni in cui con cerimonie pubbliche, offerte e sacrifici si celebravano riti dedicati agli antenati delle singole famiglie. Erano giorni “religiosi”, ossia interdetti alla vita normale: i templi erano chiusi ed era vietato celebrare i matrimoni.
Dunque, gli spunti e i riferimenti “classici” che avvalorano la tesi dei più scaramantici non mancano. La scaramanzia non deve certo diventare una malattia o, peggio una psicosi, ma a quale titolo condannare chi attraverso delle consuetudini rinsalda delle certezze? Atti scaramantici o fedeli alla prassi della tradizione, la differenza non è tale da richiedere una classificazione di genere. C’è chi il sale sceglie di metterlo nel piatto, chi in tasca. Forse però l’importante è averlo in zucca!
Emma Calvelli