Sbiancare un etiope: come nasce e si tramanda un immaginario razzista?

Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista di Federico Faloppa pone un interrogativo scomodissimo: perché l’immaginario razzista è così dannatamente tenace? La risposta, tutt’altro che semplice, arriva attraverso un serrato confronto con fonti testuali e iconografiche che risalgono indietro di secoli.

sbiancare un etiope ha782 ultima voceSbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista (UTET, 2022) del linguista Federico Faloppa non è un libro facile, ma è un libro necessario. Non è facile perché, da studioso del linguaggio rigoroso nella ricerca filologica, Faloppa affastella una messe ricchissima di fonti letterarie, storiche e iconografiche. Sono tante, tantissime le testimonianze che l’autore esamina, cataloga, seziona per evidenziare scarti semantici e culturali, dall’antichità greca alle pubblicità del XX secolo. Così tante che è quasi difficile tenerne traccia, inseguendo il ragionamento attraverso i corridoi di un labirinto culturale immenso nel quale Faloppa procede spedito. Eppure, è necessario: perché alla fine di questo tortuoso e affascinante percorso ci siamo proprio noi, quale che sia il colore della nostra pelle.

Se siamo bianchi, questo testo può farci capire fino a che punto non è vero che il colore della pelle è irrilevante per noi. Se siamo neri, ci aiuta a capire meglio come, almeno in Occidente, siamo stati rappresentati e pensati. In entrambi i casi, si tratta di una riflessione incredibilmente utile per combattere il razzismo e la discriminazione. Perché non si può, come rileva l’autore, impugnare e contrastare efficacemente uno stigma di cui non si capiscono le dinamiche e di cui si ignorano l’origine e la costruzione. Proprio per questo Sbiancare un etiope è un testo che oggi va letto con più attenzione che mai.



“Il colore è un dato irrilevante, lo capisce anche un bambino”: FALSO!

Da bianca, laureata in filosofia, relativamente giovane, prima di leggere Sbiancare un etiope sarei stata tentata anch’io di dire:

“Il colore non importa, lo capirebbe anche un bambino”.

Invece no, un bambino non lo capirebbe. Perché i bambini crescono con le (ma forse sarebbe meglio dire “nelle”) categorie culturali che apprendono a casa e a scuola. E questo, in un’Italia nemmeno troppo velatamente xenofoba e razzista, è un bel problema.

Per rendersene conto, basta andare a leggersi insieme a Faloppa gli studi dell’antropologa Paola Tabet. Quest’ultima nel 1997 s’interrogava sulla percezione della linea del colore nelle scuole elementari italiane; per rispondere, aveva fatto svolgere agli alunni un tema. “Scrivi cosa faresti se un giorno ti svegliassi e i tuoi genitori avessero la pelle nera“, recitava la consegna. Alcuni bambini scrivevano che avrebbero provato a lavarli in lavatrice utilizzando alcuni popolari detersivi, altri che avrebbero fatto ricorso a creme e misture miracolose. In ogni caso, mamma e papà andavano fatti “tornare normali” attraverso un vigoroso intervento sbiancante.

Certamente l’ingenuità delle soluzioni presentate dai piccoli alunni nei loro temi può far sorridere. A non far sorridere, invece, è che numerose aziende nella seconda decade del nuovo millennio utilizzino campagne che suggeriscono soluzioni similari. A dare questa impressione, ad esempio, è stata Dove, molto criticata ancora nel 2017 per la diffusione di uno spot poi frettolosamente ritirato. Il motivo? Il montaggio sembrava suggerire che il detergente pubblicizzato fosse così efficace da riuscire a “sbiancare” la ragazza protagonista dello spot.

Sbiancare un etiope: contro una dinamica culturale tossica

Ben venga, a fronte di contenuti che offendono la sensibilità di una parte della popolazione, che l’opinione pubblica possa chiederne conto, anche con veemenza. Tuttavia, si può concordare con l’autore di Sbiancare un etiope, l’indignazione e la protesta sono solo una parte del processo. L’altra, più silenziosa ma irrinunciabile, è la paziente decostruzione dello stereotipo secondo cui “bianco”=”normale, bello, pulito, sano, colto” e “nero”=”anormale, brutto, sporco, ignorante”.

Il merito di questo libro è far capire come il pregiudizio sia tanto radicato, tenace e subdolo proprio perché ha una storia. Per questo motivo non bastano proclami, slogan e proteste ad abbatterlo. Va estirpato proprio come si estirpa una dinamica psicologica tossica, perché è una dinamica culturale tossica che affligge la collettività. E dunque, in certa misura, ogni singolo. Andare in terapia raramente è un processo piacevole, ma può essere fondamentale per riuscire a vivere bene. Allo stesso modo, un lavoro culturale come quello portato avanti in Sbiancare un etiope è ugualmente terapeutico. Serve a curare le dinamiche violente e discriminatorie che serenamente, inconsapevolmente portiamo avanti, rendendo la nostra società un contesto non ugualmente accogliente per tutti. Potrebbe non essere piacevole e richiedere un importante sforzo etico e intellettuale. Ma va fatto: in un orizzonte globalizzato e permeato da continue migrazioni, è un imperativo non negoziabile.

Valeria Meazza

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