Sbaglieremo perché ci diranno che non abbiamo più il tempo del pensiero

Sbaglieremo perché ci diranno che non abbiamo più il tempo del pensiero

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Sbaglieremo perché ci diranno che non abbiamo più il tempo del pensiero

 

In un’ epoca di grandi incertezze (quale epoca non l’è mai stata?), la necessità di giungere ad una qualsiasi verità che ci affranchi ci appare come un bisogno. Quando, però, questo presunto bisogno assume l’assoluta valenza di una necessità corriamo il rischio non cogliere in alcun modo la drammatica complessità del reale. Cerchiamo più risposte che domande, preferiamo accessibili mete ai percorsi.

Si azzera il valore della conoscenza per avere la consolazione che un posticcio, forzato e temporaneo dissiparsi del dubbio ci offra l’illusione di agire. In questi casi non dimostriamo di avere molta stima in noi stessi e del tempo concessoci; quasi mai percepiamo già l’esercizio del dubbio come un agire.

Purtroppo il contemporaneo (in senso ampiamente lato) più che esortarci ad agire sempre e comunque ci “minaccia” a farlo; e oggi non vedo atto più rivoluzionario nelle mani dell’umano che opporsi a questa minaccia.

Essere anacronistici oggi significa ben più che “fuori dal proprio tempo”, ma, in senso più originario del significato “andare contro questo tempo”: letteralmente fratturare dall’interno il nostro essere innestati in una temporalità accettata e condivisa come calendarizzata, che non solo ci appare proficua, ma persino legittima.

Nulla di più semplice che esser riusciti a liberare nel mondo la catena di montaggio, non solo come atto produttivo in sé ma come stile di vita, di produzione di pensiero, fino ad arrivare a compiacerci di come riusciamo ad ottimizzare il cosiddetto “tempo libero”, cioè una sorta di pausa che, nel momento in cui è incasellata in precisi e inamovibili spazi del nostro vissuto, smette – non tanto paradossalmente- di essere, appunto, “libera”.

Ma tutto questo cosa c’entra con l’attuale situazione politica? Forse poco o nulla,  però ha molto a che fare con la nostra condizione storica.

Io purtroppo non sono Fusaro, né Di Maio… per mia innata fortuna non ambisco a tanto. Non ho una tale velocità di pensiero che mi porta a presumere perfette conclusioni in tempi istantanei. Ho il brutto vizio di esser lento. Devo prendermi del tempo. Devo valutare, sedimentare, assorbire l’istintuale per lasciar spazio alla valutazione; perché oggi le linee sono sottili, i confini labili – praticamente impercettibili – e non posso permettermi di avere la leggerezza di gridare alla rivoluzione per poi trovarmi ad annaspare nella più untuosa delle reazioni. Devo rispettare il mio pensiero, dargli tempo e ricordare che la parte giusta (ammesso che esista) non è data ma va edificata.

Certo, tale operazione è molto più difficile in un paese dove – come scriveva Longanesi – si alzano barricate coi mobili degli altri, ma altrettanto necessaria.   

Essere di sinistra non è dogmatico, tendenzialmente non lo è mai stato –  se non in una visione tipicamente irreggimentata e dunque sospetta – ma oggi ancora di più. Essere di sinistra non è un innato talento dell’umano ma una disciplina di pensiero, un continuo esercizio della libertà.

Oggi comprendere come difendere realmente i diritti e le libertà di ognuno, senza correre il rischio di ritrovarci in una superficiale interpretazione di questo preciso e complicatissimo lasso di storia, non può e non deve tradursi in un isterico gridare allo scandalo e all’alto tradimento, altrimenti prima o poi potremo trovarci ad osannare il primo branco di lupi che troverà spalancato l’ingresso dell’ovile, e, onestamente, ai capri espiatori ho sempre preferito le soluzioni.

Sentire Salvini che si augura che le prossime elezioni si tradurranno in un plebiscito, e avere quasi la certezza che sarà così, non deve far impettire nessuno … ma ci deve preoccupare.

Aver assistito senza mai opporci al progressivo imbarbarirsi di una classe politica totalmente fuori controllo, non può farci sentire vittime, ma complici.  

Credere di difendere la democrazia mettendo un cappio mediatico al collo delle Istituzioni non è rivoluzionario, ma puro e semplice fascismo. Armarsi del disagio sociale per attaccare non ben precisati poteri forti, non è responsabilità storico-politica, ma grossolano complottismo. Non c’è bisogno di leggere Sun-Tzu per sapere che se esiste un nemico e si decide di affrontarlo, prima di agire, è necessario conoscerlo meglio di un fratello.

In pratica non possiamo assolutamente permetterci di semplificare niente, assolutamente niente, anche se istintivamente può risultarci sbrigativo, rabbiosamente appagante e risolutivo, perché si rischia davvero grosso.

Ecco cosa significa non riconquistare il tempo, non essere note e colori nuovi ed improvvisi in un sordo e arido silenzio…, significa abdicare dalla fatica della lungimiranza a favore di una cieca fame di sbrigative e grezze soluzioni, quasi sempre funeste madri di pessime conseguenze.

fonte foto: www.pixtury.com

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