Come i Savoia depredarono la Sardegna e crearono la prima questione meridionale

Di Pino Aprile






Perché vi parlo di “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”, del professor Francesco Casùla (edizioni Grafica del Parteolla)? Quando mi chiesi dove fosse la Sardegna, nella storia d’Italia, volli cercare una risposta veloce e mi trovai impelagato (tanto per cambiare) in una montagna di libri antichi e moderni (più gli uni che gli altri). E scoprii che la Questione Meridionale (sorta con l’invasione del Regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito piemontese, prima nascostamente, con i 22 mila soldati ufficialmente disertori al seguito di Garibaldi; poi ufficialmente, con l’esercito calato a prendere possesso della refurtiva), aveva un antenato: la Questione Sarda.

Quando, a inizio del 1700, i Savoia ottengono l’isola, con un trattato internazionale, iniziano a spogliarla di ogni risorsa, escludendo i sardi da ogni possibilità di intraprendere o dirigere, salvo quei possidenti che si metteranno al servizio del nuovo padrone, per aiutarlo nel saccheggio e intascare le briciole. Le proteste, le rivolte, vengono soffocate nel sangue, con la ferocia e l’arbitrio. E giustificate con l’inciviltà della popolazione che i sabaudi, ovviamente, trattenendo eroicamente il ribrezzo, tentavano di dirozzare.

Seppi, così, che tutto quel che i Savoia fecero in Sardegna, fu solo replicato, più in grande, nel Regno delle Due Sicilie (i sardi erano circa 600mila, al momento dell’Unità, i duosiciliani quindici volte tanto). Da questa osservazione e dalla scoperta che, pur senza paesi rasi al suolo e lo sterminio della popolazione, le stesse tecniche erano state adottate dalla Germania Ovest in quella Est, dal giorno della riunificazione, nacque il mio “Terroni ‘ndernescional”.
Al Sud ci si lamenta, non a torto, della disattenzione del resto del Paese nei confronti delle regioni del Mezzogiorno. Ma la Sardegna, a parte la recente scoperta turistica, è del tutto assente. Il che parrebbe incredibile se, con una popolazione modesta, rispetto a quella di regioni di dimensione paragonabile, può vantare due presidenti della Repubblica, il segretario più amato del partito della sinistra italiana e altri dirigenti di rilievo nazionale.
Eppure, i sardi si raccontano, e molto, e bene; hanno scrittori di grande valore, un premio Nobel alla Letteratura (Deledda). Ma non riescono a farsi ascoltare dagli altri, un po’ perché, quando comunicano, paiono avere come interlocutori primi gli stessi sardi; un po’, perché gli altri, oltre che a godere della Sardegna, non mostrano grande interesse a sapere dei sardi (ma chi comincia, vuole diventare sardo, come De André e tanti altri).
Negli ultimi anni, una rinnovata produzione culturale, letteraria, di pari passo con una potente risorgiva di orgoglio isolano mai scemato, ripropone i temi della sardità e della colonizzazione. In questo, Francesco Casùla si è distinto con un’opera grandiosa, “Letteratura e civiltà della Sardegna”, in due volumi. E oggi con il libro su Carlo Felice e i suoi sanguinari parenti.
Il saccheggio dell’isola fu di tale ferocia che persino dopo l’Unità, nel 1864, in occasione dell’ennesimo inasprimento di tasse imposto dai Savoia, metà della somma rastrellata in tutto il Paese fu sottratta ai soli sardi. La disistima dei sabaudi per gli isolani era tale che tendevano a impedire i matrimoni “misti”, ritenevano i sardi “nemici della fatica, feroci e dediti al vizio”; e per de Maistre erano peggio dei “dei selvaggi perché il selvaggio non conosce la luce, il Sardo la odia”.




Una scia di razzismo e pregiudizio che viene da lontano (per Cicerone, i sardi erano per natura “ladruncoli, inaffidabili e disonesti”, in quanto africani) e arriva a oggi: appena qualche decennio fa, il noto giornalista Augusto Guerriero (Ricciardetto), scrisse che i barbaricini bisognava “trattarli” con gas asfissianti; e nel 2016, il procuratore di Cagliari, nell’inaugurare l’anno giudiziario, parlava di “istinto predatorio (tipico della mentalità barbaricina)”.
Nessuna meraviglia che a gente ritenuta incivile (osavano ribellarsi alla spoliazione dei loro beni, dell’intera isola: proprio selvaggi!), si applicassero metodi sbrigativi. Naturalmente, anche lì si trattò di estirpare il “banditismo” (nell’ex Regno delle Due Sicilie “brigantaggio”): il marchese di Rivarolo in tre anni scarsi fece incarcerare tremila persone, giustiziarne 432, con “cerimonie” pubbliche ferocissime: torture, fustigazioni che riducevano il malcapitato a brandelli, poi la forca e la decapitazione, con la testa portata in giro nei paesi in una gabbia di ferro (lo rivedremo al Sud, quando decidero di “liberarlo”).
Ma il più sanguinario fu Carlo Felice, detto Feroce, vicerè e poi re, per disgrazia dei sardi “…orrendamente torturati, trucidati nells strade o nelle prigioni… I villaggi del Logudorese vennero assaliti dalle truppe regie, cannoneggiati, incendiati e, molti dei loro abitanti uccisi o arrestati in massa”. Spaventosi i tormenti cui fu sottoposto il patriota Francesco Cilocco, la cui testa pure fu esposta in una gabbia di ferro, il corpo bruciato e le neceri disperse.




Con la legge delle chiudende, che consentì ai possidenti e ladroni di appropriarsi delle terre pubbliche e recintarle come proprie (distruggendo l’uso di libera terra che aveva retto da tempo immemorabile economia e comunità sarde) e sulla “proprietà perfetta”, la millenaria civiltà dell’isola fu atterrata. La rivolta salvò il costume sardo solo in alcune aree; scorse molto sangue, sorsero odi insanabili, che durano in alcuni casi ancora oggi, e grandi patrimoni inutilizzati da un manipolo di profittatori.
Ci fu una coraggiosa denuncia, nel Parlamento di Torino, da parte del deputato sardo Giorgio Asproni, che sembra anticipare, in copia, quella del duca di Maddaloni, nello stesso Parlamento, ma ormai “unitario”, nel 1861: “La vera istoria racconterà le scellerate fucilazioni; le condanne di vecchi e innocenti uomini alle galere; gli spami delle famiglie per i solo cari mandati in esilio per ingiusti sospetti; gli schiaffi e le battiture di detenuti carichi di ferro in mezzo a’ birri; il bastone, di costume barbaro, applicato alle spalle dei testimoni…”; e così via, nell’elenco degli orrori.
Sino a costruire, con la violenza, l’oppressione e la rapina, un “sottosviluppo che non è ritardo ma superfruttamento”. Fu la prima Questione meridionale. L’isola aveva avuto altre dominazioni, nel tempo (fenici, romani, pisani, genovesi, spagnoli), ma Casùla non ha dubbi su chi siano stati “i più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia: i Savoia”.


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